venerdì, 2 Giugno, 2023
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    Non tutto cambierà dopo la pandemia

    di Oreste Veronesi

    In controtendenza con le molte parole spese finora sulla pandemia e sulle trasformazioni che porterà con sé, è importante sottolineare che non tutto cambierà. Sovranismo e neoliberismo non sono spettri che ci siamo lasciati alle spalle, anzi. La storia può aiutarci ad orientare lo sguardo e a tenere alta la guardia verso ciò che non cambierà e che magari subirà un moto di accelerazione come conseguenza di questa pandemia.

     

    «La nostra lotta è per uscire dalla caverna»
    Miller, L’incubo ad aria condizionata

    Riflettendo alle porte della seconda guerra mondiale, lo scrittore americano Henry Miller, tornato in patria dopo un “esilio” di dieci anni in Francia, provava a ragionare sui cambiamenti che quell’evento epocale avrebbe potuto causare nelle società occidentali. Introducendo le pagine in cui descriveva tre anni di viaggi per gli Stati Uniti, Miller metteva in guardia dal credere che tutto sarebbe cambiato dopo la guerra. Lo faceva da una prospettiva particolare, quella di un Paese che non era stato vittima di un regime fascista, ma che nel corso degli anni Trenta, e durante il conflitto, era stato guidato da uno dei più lungimiranti politici dell’epoca, Franklin D. Roosevelt. Per questo Miller annotava con sarcasmo che «c’è chi crede che una dichiarazione di guerra cambi tutto. Fosse vero! […] vediamo se il popolo potrà esprimere i suoi desideri direttamente, senza l’intercessione, la distorsione e la malafede degli uomini politici». Ma pur sperando che ciò avvenisse, con tanta amarezza quanto realismo ricordava ai suoi contemporanei che erano «ancora uomini delle caverne. Uomini delle caverne democratici, forse, ma è una magra consolazione».  Seguendo il filo dello stesso ragionamento, questo articolo si propone di guardare a quello che non sta mutando e non muterà alla fine di questa pandemia

    Nulla sarà più come prima

    In queste settimane di tormenti, di agonie personali e collettive, stiamo leggendo fiumi di articoli sui dati statistici della diffusione del virus, sulla conta dei morti e dei contagiati, sulle carenze strutturali del nostro sistema sanitario, sulle cause antropiche della diffusione del Covid 19. Vi è poi una folta schiera di articoli, che pure su Malora troveranno spazio, che analizzano o prospettano le conseguenze economiche e sociali di questa fase. In questi giorni di quarantena non manca la discussione e una delle immagini evocate per parlare di questo periodo è quella della guerra. Si tratta di un’immagine performativa, di un’interpretazione capace di orientare le nostre disposizioni mentali e i nostri stati d’animo. La guerra, ha evidenziato Roger Caillois, «non si limita più a parassitare la società civile, ma tende ad assorbirla interamente». Tutto le è subordinato, anche la nostra immaginazione, e mentre dimentichiamo il mondo fino a ieri, naufraghiamo in un oceano di cui non conosciamo le coordinate e che proviamo a comprendere camminando a tentoni, allungando lo sguardo ad est e la mano ad ovest. 

    Tutto sembra scomparire nel motto “nulla sarà più come prima”. Lo sentiamo ripetere da più parti: il mondo imprenditoriale si appresta ad affrontare quello che appare l’anno più nero dalla crisi del 2008; quello politico a preparare la popolazione alla limitazione delle più consuete libertà individuali; i movimenti e le organizzazioni di opposizione evidenziano invece come l’impianto del sistema economico finora conosciuto (fatto di libera circolazione dei capitali, austerità, deregulation etc.) stia crollando. Ma mentre l’oceano è in tempesta, l’iceberg che vediamo emergere all’orizzonte rimane fermo nella sua posizione. Convinti di esserci spostati di miglia dal terreno della nostra partenza, solo speronando quella punta che avevamo avvistato in lontananza, ci accorgeremo che la massa di ghiaccio che la sostiene è la stessa che sorreggeva il molo da cui siamo salpati.

    L’orizzonte è ancora lontano 

    La storia dell’uomo è costellata di grandi crisi: guerre, epidemie e carestie sono un tratto caratterizzante del nostro passato. Nonostante questo, ci sembra di essere congelati in un presente continuo da cui è impossibile uscire: il nostro mondo è qui e ora e pur facendo vanto della storia millenaria dell’Italia non riusciamo ad evadere da una gabbia che ci incatena all’esperienza di queste settimane. Ci sono però molti fenomeni che non possiamo permetterci di dimenticare. Perché se niente sarà più come prima bisognerebbe comprendere cos’è quel tutto che cambia. A ben guardare è la storia evenemenziale, quella, per dirla con Braudel, «dalle oscillazioni brevi, rapide, nervose. Ultrasensibile per definizione, la più piccola mossa mette in allarme tutti i suoi strumenti di misura». Sembrerebbe questo il piano su cui siamo costretti a muoverci, quello immediatamente politico, lo stesso che ci ha traghettato da un governo di estrema destra ad uno di centro nell’arco di poco tempo nell’agosto 2019. Eppure guardando i primi sondaggi, questa storia così fragile e mobile non sembra confermare le nostre preoccupazioni e aspettative. Mentre scrivo, i sondaggi fotografano così la situazione: Ixé indica al 26.5% la Lega e al 12.7% Fratelli d’Italia mentre Winpoll li colloca rispettivamente al 30.6% e al 13.7%, e infine il più recente sondaggio di Ipsos, al 31.3% e al 13.3%. In questo contesto sia i partiti di “centro sinistra” che di sinistra non appaiono guadagnare terreno se non su percentuali superflue. Il mondo non è ancora crollato e illudersi di essersi lasciati alle spalle lo spettro sovranista di Matteo Salvini e Giorgia Meloni o quello neoliberista dell’Unione Europea, sarebbe un grave errore.

    Certo, molto cambierà e con ricadute importanti sulle nostre vite. Cambieranno le abitudini delle persone: gli spostamenti giornalieri, i ritrovi amicali, i protocolli da seguire negli spazi pubblici e nei luoghi di lavoro. Cambierà inoltre, e già sta cambiando, la politica economica europea. Ma questi cambiamenti stanno offuscando il quadro di ciò che non sta cambiando e che dovremmo osservare con attenzione, pena il trovarsi in mezzo all’oceano senza una bussola funzionante.

    Un presente profondo

    Fin dai primi giorni di quarantena un messaggio è circolato nei gruppi whatsapp e sui social: «per molte donne stare a casa non è un invito rassicurante». Un testo conciso e immediato che ha riportato alla luce il sommerso di violenza domestica che ogni giorno molte, troppe donne, subiscono nelle proprie case. Una dinamica che è in crescita in queste settimane di contenimento, ma che riguarda tutto il mondo, non solo l’Italia, dalla Cina, alla Francia. Inoltre, la situazione di molte donne è aggravata anche per ciò che concerne il lavoro domestico e di assistenza, come ha sottolineato un gruppo di ricercatrici italiane in un appello per una “democrazia della cura”. La denuncia delle diseguaglianze e della violenza di genere evidenzia la complessità del quadro entro cui ci muoviamo quando affermiamo che “tutto cambierà” dopo la pandemia. Un cambiamento, per essere tale, presuppone una trasformazione della struttura sociale e culturale. Lo stiamo attraversando, come accennato poco sopra, in ambito economico, ma questo non comporta a cascata una variazione radicale della nostra realtà. I sondaggi che abbiamo citato, ad esempio, confermano che un fronte politico è ancora maggioritario nell’immaginario collettivo, ben prima che nelle urne elettorali. «Hanno aperto più centri di accoglienza che ospedali», mi dice un autista che accolgo al front office dell’azienda di trasporti in cui lavoro, mentre stiamo parlando dell’operato di Zaia in regione, a quasi tre settimane dall’inizio della zona rossa. Lo avevo incalzato sulla privatizzazione della sanità pubblica, ma la sua risposta ha taciuto ogni mio tentativo di porre la discussione su un piano diverso. Questo è l’immaginario con cui Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno cavalcato la questione migratoria, aiutati da un fronte moderato ormai egemonizzato dai frame retorici dell’estrema destra. Lo stesso immaginario che criminalizza migliaia di persone per il solo fatto di essere povere, e che oggi si trovano ancora marginalizzate e multate con l’unica colpa di non possedere una casa in cui stare o di provenire da un Paese in cui guerre, gravi violazioni delle libertà individuali o povertà, li hanno costretti e costrette alla fuga. E’ la stessa mentalità che pretende legge e ordine e che vediamo giustamente condannare da più parti. Ma la storia del Novecento sta lì a ricordarci che in queste fasi di passaggio le retoriche autoritarie non sono state sostituite dai loro opposti, bensì inasprite da un contesto “emergenziale”: «fra i tanti e schifosi effetti di questa peste, il più schifoso era la matta furia, la voluttà golosa della delazione», scriveva Curzio Malaparte raccontando la città di Napoli dell’ottobre del 1943. Dove per “peste” l’autore intendeva una “malattia dello spirito”, come nota Nicola Lagioia, causata da un contesto che produce individualismo e non, come si spererebbe, solidarietà.

    Esiste un mondo di valori, una «profondità del quotidiano», direbbe Le Goff, che ci stiamo lasciando sfuggire presi dal contesto dell’emergenza. E allora il compito che dovremmo, e come Malora vorremmo darci, non è quello di seguire la cronaca dell’emergenza o di progettare le prospettive politiche che vorremmo ne conseguiranno. A questo ci pensano le organizzazioni politiche in cui anche alcune e alcuni di noi fanno attivismo. Ma quella di comprendere questa profondità quotidiana, queste culture della caverna che ci impediscono di uscirne.