A fine maggio la notizia del ritrovamento di una villa romana sotto i vigneti di Negrar, in provincia di Verona, ha rimbalzato sui media di tutto il mondo. Tuttavia, la recente scoperta non è servita a farci riflettere sul ruolo dell’archeologia nel mondo moderno.
Così velocemente come è comparso sui social, altrettanto velocemente è scomparso l’annuncio del ritrovamento di una villa romana sotto i vigneti di Negrar, in provincia di Verona tra le vigne da cui nasce l’amarone. Forse per mancanza di informazioni da parte di un mondo culturale in ginocchio, forse per necessità di una buona nuova dopo mesi di lockdown, la notizia è stata rimbalzata su giornali online, blog e social di tutto il mondo occidentale. Nello specifico è stato riportato che sono stati rimessi in luce alcuni ambienti mosaicati nel tentativo di individuare i limiti di un sito che era già stato scavato più volte dal 1887, ma di cui si era persa la documentazione. Di fatto, sia per gli addetti ai lavori, sia per gli abitanti di Negrar la notizia non ha suscitato molto stupore: la strada su cui si affaccia il sito si chiama Via Villa, inoltre già nel 2011 la Cantina Sociale di Negrar ha emesso un’etichetta per l’amarone, chiamato Villa Espressioni, che riportava nella grafica un dettaglio del mosaico della villa.
Dallo stupore per la scoperta si è passati velocemente alle domande sul futuro di quei resti archeologici, giudicati dalla comunità online come tra i più interessanti degli ultimi periodi. Che ne sarà di questa scoperta, del campo, dei proprietari del terreno e della gestione? Questioni che però non sono riuscite ad accendere un dibattito interessante sul futuro impiego del sito.
Sicuramente l’opzione più facile è quella già utilizzata durante le campagne di scavo del 1887, del 1922 e del 1975, ovvero quello di uno studio approfondito con conseguente reinterro del bene archeologico, con la possibilità di un’eventuale riapertura in un secondo momento per esami successivi. Questa soluzione è incredibilmente economica e rapida, permette la conservazione dei resti e, normalmente, allontana lo spettro dell’esproprio, attraverso la quale lo Stato predilige l’interesse pubblico a quello privato, previo versamento di un’indennità spesso stabilita da partiti terzi e neutrali. Per chi lavora nell’ambito dei beni culturali il reinterro è una pratica quasi quotidiana a causa della mancanza di fondi o della necessità di portare a termine i lavori che hanno permesso la scoperta del bene, come lo sbancamento di un terreno o lo scavo per il posizionamento di tubature o di fondamenta. Esistono molti casi anche nel territorio veronese di siti, anche di vasta estensione o di accertato interesse, che non sono stati portati alla luce, come gli ambienti mosaicati, forse riconducibili ad una mansio, ritrovati sotto il Cinema Astra in via Oberdan a Verona o l’enorme villa tardoantica fornita di terme e di ambienti per la preparazione del vino scoperta in località Ambrosan a San Pietro in Cariano.
Nel caso in cui invece il valore dei resti trovati sia di particolare importanza, qui intesa non come rilevanza storica ma economica, può essere adottata la soluzione della musealizzazione. Questa non comporta automaticamente l’esproprio del terreno ma ne cambia sicuramente la destinazione d’uso, quindi uno spostamento dal settore primario a quello terziario. Nel caso in cui la proprietà passasse allo Stato, verrebbe creato uno spazio espositivo che probabilmente verrebbe dato in concessione ad Associazioni o Fondi senza scopo di lucro che dovranno garantire la fruizione, la manutenzione e, in alcuni casi, il restauro del bene concesso. Purtroppo una buona parte di queste Associazioni e Fondi non è costituita da esperti di settore o da personale formato, rendendo le visite e la gestione lacunose e causando quindi la perdita di interesse da parte della comunità e delle istituzioni a voler investire nella cultura.
Nel caso in cui la proprietà invece rimanesse agli attuali proprietari del terreno, o di eventuali futuri acquirenti, il bene rimarrebbe comunque vincolato. Questo implica gli obblighi di conservazione, manutenzione e restauro a carico del proprietario, il quale non potrà manomettere, spostare, vendere o utilizzare gli ambienti vincolati in modalità non conformi all’uso stabilito dalla legge. Spesso al proprietario sono affidati anche gli obblighi di fruizione e di apertura al pubblico del bene, con le frequenti problematiche che questa soluzione comporta: mancanza di risorse umane propriamente formate, aperture in giorni e fasce orarie scomode per evitare il fastidio dei turisti, inefficiente uso di pubblicità e perdita di interesse.
Al momento le intenzioni sembrano quelle di un progetto di musealizzazione sponsorizzato da una cordata di imprese e cantine in grado di supportare un sito archeologico, senza scendere però nel dettaglio di chi avrà in carico la gestione e la manutenzione dello stesso. Ma qual è la soluzione più indicata?
Da come la notizia della riscoperta del sito è già stata dimenticata dopo appena due settimane dalla sua prima pubblicazione, si può ben immaginare quale sia davvero l’interesse della comunità veronese ed italiana nei confronti dell’archeologia. Frasi come “sono solo quattro sassi” e “non puoi fare un buco che trovi qualcosa” celano poco velatamente il disturbo che un ritrovamento causa nel breve periodo, come i rallentamenti nei lavori o l’utilizzo del denaro pubblico per finanziare la cultura. D’altro canto i momentanei moti di entusiasmo e curiosità suscitati dalla scoperta di un nuovo sito servono anche a compensare il poco interesse per quelli più antichi e mai visitati. In fondo l’interesse per il territorio, nonostante il forte sentimento di campanilismo e di appartenenza che accomuna gli abitanti del Veronese, non è mai stato articolato nello studio e nella scoperta delle sue peculiarità. Esistono esempi di siti archeologici di importanza nazionale ed europea che non sono conosciuti, o comunque mal fruiti dalla popolazione locale. Basti pensare per quanto riguarda la Provincia al Riparo Solinas a Fumane, in cui vi sono tracce di frequentazione sia dell’Homo Neanderthalensis che dell’Homo Sapiens, al Riparo Tagliente, incredibile esempio di frequentazione del Paleolitico Medio e Superiore, oppure all’ambiente di culto paleocristiano di Santa Maria in Stelle. Per quanto concerne il comune di Verona, il cui centro è Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, il turismo “mordi e fuggi” è stato concentrato tra Porta Leoni, Balcone di Giulietta, via Mazzini e Arena di Verona, dimenticandosi di alcune incredibili evidenze come il Criptoportico di Corte Sgarzerie, la domus della Banca Popolare o il complesso di mura repubblicane, imperiali e tardoantiche di via S. Cosimo.
In questo caso il problema è sicuramente la mancanza di attrazione della popolazione per il suo territorio, ma anche l’interesse degli Enti Pubblici a non voler cambiare la situazione, continuando a considerare l’arte e la cultura come semplice accessorio del turismo. Il rapporto del turismo stilato dalla Camera di Commercio mette bene in chiaro quali siano i settori ritenuti più importanti, considerato che non esiste nemmeno un paragrafo sulla fruizione culturale, concentrandosi invece sul mercato alberghiero e su quello agroalimentare. Nulla di eclatante, se si va a vedere com’è distribuito il turismo sul territorio veronese: il 75,7% viene assorbito dai comuni che si affacciano sul Lago di Garda, il 14,1% dalla città di Verona e il 10,2% dai restanti comuni della Provincia.
Ha quindi senso una musealizzazione della villa di Negrar? Probabilmente no, o almeno, non in questo momento storico. Il rischio nel creare un sito archeologico non è solo quello di una perdita di denaro pubblico ma anche quello di un deterioramento delle condizioni della struttura nel momento in cui non sarà più possibile garantirne una manutenzione adeguata a causa della mancanza di turisti. Forse prima di iniziare un progetto simile sarebbe più importante iniziare un percorso di sensibilizzazione degli abitanti del veronese riguardo la propria storia, un percorso che possa far comprendere l’importanza della cultura e dell’arte e che valorizzi tutte quelle espressioni che ad oggi sono state lasciate da parte, nella speranza che una futura scoperta venga accolta con un duraturo interesse e non con uno sporadico like sui social.