venerdì, 22 Settembre, 2023
More

    Red Mirror. Dentro le immagini di un futuro già scritto. Intervista a Simone Pieranni

    di Francesco Marchi

    Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, Roma-Bari, 2020) è l’ultimo libro di Simone Pieranni, giornalista de il manifesto, profondo studioso della società cinese, della sue trasformazioni e del ruolo della Cina nelle geometrie della globalizzazione. Un testo che analizza in profondità origini e implicazioni politiche della nuova egemonia del paese asiatico, che ha saputo costruire un vero e proprio modello di governance, ma non solo, basato sulle nuove tecnologie.

    Videocamere con riconoscimento facciale agli angoli delle strade, una “super App”, WeChat, che consente di accedere a qualunque servizio, dal pagamento di un ristorante alla richiesta di divorzio, numerosi progetti di smart city ecosostenibili ma incubatori di profonde disuguaglianze sociali, la nascita di una cittadinanza digitale basata su un controllo pressoché totale dei comportamenti civici dei cittadini, l’utilizzo di una mole infinita di dati personali per affinare tecnologie di governance della popolazione. Sono queste alcune delle immagini che fotografano i cambiamenti radicali avvenuti in Cina in questi ultimi decenni, e che ci riconsegnano un paese che ha saputo costruire una vera e propria egemonia globale sulle nuove tecnologie.

    Immagini, però, che senza un necessario approfondimento, storico e culturale, rischiano di congelare in superficiali istantanee le complessità di una società che richiede di essere guardata problematizzando le nostre lenti occidentali. Uno dei rischi, infatti, è di leggere in chiave univocamente distopica una realtà nella quale si intrecciano antichissime tradizioni culturali e progetti avveniristici mediati da un potere statale che è stato in grado di unire elementi neoliberali con un ferreo controllo politico. È all’interno di questo complesso laboratorio che ci porta Red Mirror, per mostrarci i diversi retroscena di queste immagini che delineano un nuovo futuro ipertecnologico, che in Cina, ma non solo, è già fortemente presente.

    Nel libro sottolinei come la Cina in questi ultimi anni sia diventata la potenza egemone a livello globale. Un’egemonia tecnologica che però viene da lontano, o quantomeno da scelte politiche che già dagli anni ’80 si sono mosse in una direzione di forti investimenti nel settore tecnologico, della ricerca e dell’istruzione. Dove collocheresti le basi di questa egemonia all’interno degli assetti globali degli ultimi decenni?

    Una delle date da cui partire per inquadrare il ruolo cinese nel contesto globale è il 2001. Una data simbolica che ricordiamo per le giornate contro il G8 di Genova e che ha corrisposto anche all’entrata della Cina nel WTO, l’organizzazione mondiale del commercio. Quello è stato un momento di svolta perché da allora la Cina è entrata a tutti gli effetti all’interno delle dinamiche della globalizzazione, creando in occidente una falsa speranza. Le potenze occidentali infatti erano convinte che con l’ingresso cinese nel mercato mondiale, e il conseguente sviluppo economico, la Cina sarebbe gradualmente andata in una direzione di democratizzazione del sistema politico.

    Invece, al contrario delle aspettative occidentali, la Cina è stata da un lato in grado di beneficiare economicamente dal suo ingresso nei meccanismi economici globali e dell’altro ha saputo mantenere un sistema politico di tipo autoritario. Questa peculiarità cinese ci dice molto sullo stato presente della globalizzazione: se da un lato le democrazie occidentali non sono state in grado di gestire, per diversi motivi, gli effetti del neoliberismo, il modello cinese ha invece saputo beneficiare di questa spinta neoliberista proprio in virtù del fatto dell’integrazione tra elementi di mercato combinati con una fortissimo controllo politico. In questa cornice la forza Cinese è stata quella di lavorare a livello economico su un doppio binario: se da un lato, soprattutto fino al 2008, l’economia si reggeva fondamentalmente sulle esportazioni di prodotti a basso costo verso i mercati occidentali, dall’altro lo stato cinese investiva in ingenti progetti tecnologici che hanno posto le basi della Cina attuale, il tutto all’interno di un controllo ideologico molto forte nel quale il potere politico ha saputo sempre supervisionare e guidare a proprio vantaggio i progressi tecnologici.

    Se dunque le potenze in occidente pensavano che la rete e le nuove tecnologie sarebbero state un boomerang per il potere cinese che avrebbero causato un’apertura di spazi di libertà all’interno della società, questi elementi sono invece stati un volano all’interno di quello che Deng Xiaoping ha chiamato “socialismo di mercato”. 

    Uno degli aspetti più dibattuti del nuovo modello cinese riguarda il cosiddetto sistema dei crediti sociali. Un sistema con diversi progetti sperimentali che non è ancora integrato a livello nazionale. In sintesi, i crediti sociali sono una “patente civica” a punti, sia per i cittadini che per le imprese, che a seconda dei loro comportamenti più o meno “corretti”, costantemente monitorati, possono perdere l’accesso a determinati servizi. Come sottolinei, una lettura univocamente distopica rischia di mistificare questo complesso sistema che oscilla tra forme di accountability, soprattutto per le aziende, e tentativi di uno stringente controllo sulla popolazione attraverso la retorica della tutela sociale.

    Per capire il sistema dei crediti sociali dobbiamo partire dal fatto che in questi quarant’anni la Cina ha subito dei cambiamenti che solitamente avvengono in un arco di tempo ben più esteso. Uno di questi cambiamenti riguarda il passaggio da un sistema basato sulla fedeltà ideologica, nel periodo Maoista, a un sistema che si è aperto al capitalismo. Questa transizione ha significato per il potere politico una sfida enorme perché si è trovato a gestire imperi economici con caratteristiche predatorie, scatenando anche una sorta di banditismo all’interno del sistema.

    In questa prospettiva, il sistema dei crediti sociali applicato alle aziende può essere visto come un tentativo di regolamentare in maniera uniforme e trasparente le aziende stesse, creando una forte fiducia nella popolazione che in questo modo può sentirsi tutelata rispetto a eventuali soprusi da parte dell’industria alimentare e del sistema bancario, per esempio. Anche per quanto riguarda i crediti sociali individuali, in linea di massima, la popolazione non li vede in maniera eccessivamente negativa, dal momento che vengono interpretati anche come un tentativo da parte del potere di mettere tutti sullo stesso piano senza discriminazioni sociali ed economiche. Naturalmente questo elemento si basa su un sistema valoriale e culturale radicalmente differente dal nostro e per questo motivo in occidente si tende a darne un’interpretazione solamente distopica, non nascondendo il fatto che la questione del controllo sociale rimane un elemento centrale all’interno del sistema dei crediti sociali.

    Un altro esempio di innovazione tecnologica riguarda lo sviluppo delle cosiddette smart city, con diversi progetti che in questi ultimi anni sono stati implementati. Nonostante la retorica della sostenibilità ambientale e della sicurezza, definisci le smart city un «dispositivo di disuguaglianza», dal momento che si basano su una frammentazione gerarchica della cittadinanza in base a criteri economici e comportamenti civici. Come anticipi nel testo, pochissime persone potranno permettersi di vivere nelle smart city, mentre il resto della popolazione vivrà in posti inquinati, inquinamento in parte dovuto anche alle tecnologie impiegate per le smart city stesse. Cosa rappresenta dunque la smart city e in che modo unisce forme di controllo ed esclusione sociale? 

    La questione delle smart city e delle loro contraddizioni è uno degli aspetti che accomuna la Cina con le nostre società, dal momento che le contraddizioni che hai citato sono presenti anche in Europa e non solo. Detto questo, le Smart city saranno posti ecosostenibili, basati sul cosiddetto internet delle cose che controllerà ogni aspetto del funzionamento della città, che però potranno permettersi in pochissimi. In Cina si parla di circa 2,5 milioni di persone che andranno a viverci, su una popolazione di quasi un miliardo e mezzo. Il nuovo individuo che vivrà in queste nuove città vedrà confluire sia elementi di classe sociale che di merito civico: un ricco civicamente ligio alle regole.

    E’ all’interno delle smart city che vediamo dunque intersecarsi la questione della classe con quella del controllo sui comportamenti dei cittadini. Questo intreccio sta alla base di un nuovo concetto di cittadinanza che sta nascendo in Cina, nel quale per accedere ai servizi bisognerà tenere conto da un lato delle effettive possibilità economiche dei cittadini e dall’altro del loro comportamento, che in alcuni casi potrebbe compromettere l’accesso a determinati servizi.

    Quello che si delinea attraverso questa pervasività della tecnologia sembrerebbe un sistema altamente meritocratico e trasparente, nel quale la selezione della classe dirigente, per esempio, ma non solo, potrebbe avvenire attraverso parametri uniformi e imparziali. Come sottolinei invece nel libro, a questo aspetto tecnocratico ci sono altri fattori che influenzano l’ascesa sociale e l’affermazione personale, come per esempio gli “agganci” e le raccomandazioni. La meritocrazia, in altri termini, come da noi, è un concetto sempre problematico. 

    Sulla questione della meritocrazia cinese c’è stato un ampio dibattito. Se è vero che il sistema ha introdotto elementi valutativi uniformi e standardizzati a tutta la società, è anche vero che se prendiamo in considerazione gli alti dirigenti e funzionari politici provengono da gruppi che costituiscono una sorta di aristocrazia politica. In Cina, per fare carriera all’interno dei quadri di partito, per esempio, risulta fondamentale avere conoscenze importanti e possedere l’abilità di costruire una rete di contatti influenti per i propri scopi. In questa prospettiva, la meritocrazia risulta un concetto fallace, una retorica più che un sistema effettivo, tanto in Cina quanto da noi.

    Uno degli aspetti centrali del libro riguarda, per riprendere il sottotitolo di un altro volume, quello che potremmo definire il lato oscuro della rivoluzione digitale. Tutto l’enorme apparato tecnologico, infatti, nonostante possa superficialmente apparire slegato dal lavoro umano, nella realtà dei fatti per svilupparsi necessita costantemente di una massa ingente di lavoratori sfruttati che lo fanno funzionare, ma che vengono sistematicamente nascosti. Si parla di milioni di persone che lavorano 12 ore al giorno per 6 giorni a settimana (il cosiddetto modello 996), di persone che scelgono di suicidarsi non trovando più una via d’uscita a questo sfruttamento continuo e devastante, di persone che non hanno più legami affettivi perché finiscono in questo ingranaggio infernale. Cosa ci dice la Cina rispetto al rapporto tra capitale e lavoro oggi?

    Quando parliamo di intelligenza artificiale e nuove tecnologie tendiamo per diversi motivi a pensare che queste macchine facciano tutto da sole, quando invece hanno bisogno di qualcuno che le educhi e le faccia migliorare in continuazione. Per questo motivo, masse di persone con turni massacranti devono continuamente esercitare le macchine catalogando un numero infinito di input per perfezionarne il funzionamento. La questione centrale è che oggi queste tendenze di sfruttamento del lavoro dovuto al nuovo capitalismo digitale si stanno palesando ormai strutturalmente anche da noi. Ancora una volta, il rapporto tra occidente e Cina sembra andare in una direzione per la quale a rimetterci sono sempre i più poveri. Se qualche anno fa, durante lo sviluppo economico cinese, le multinazionali occidentali delocalizzavano proprio in Cina approfittandone della mancanza di tutele e diritti dei lavoratori, oggi invece in occidente i ritmi di lavoro cinese rischiano di diventare i nostri ritmi, per una questione di competizione, che diventa un pretesto per costringere i lavoratori a condizioni lavorative sempre più devastanti.  

    Per concludere riprenderei una delle indicazioni che emergono a livello generale dal libro, ovvero la conformazione di un ordine mondiale bipolare. Un ordine basato sulle nuove tecnologie, dove da un lato la Cina sembra essere la potenza egemone, mentre gli Stati Uniti rappresentano il competitor più forte. All’interno di questo dualismo, l’Europa sembra non essere all’altezza della situazione, rischiando di diventare una spazio conteso tra le due superpotenze. 

    L’Europa deve scegliere se diventare un campo di battaglia tra le due superpotenze oppure cercare di costruire una posizione autonoma forte, anche per quanto riguarda la protezione e l’utilizzo dei dati. Il problema però è a monte, politico prima che tecnologico. Finché non ci sarà un’integrazione strutturale a livello politico, gli stati, sia sulle questioni economiche che tecnologiche, continueranno a muoversi singolarmente, perpetuando una debolezza cronica dell’Europa a livello geopolitico. Per il momento, gli stati europei, ad eccezione della Germania, che sul piano politico e commerciale sembra essere in grado di giocarsi le sue carte anche con la Cina, si prestano ad essere un terreno di conquista conteso tra le due superpotenze. 

    Illustrazione di Andrea Laperni