venerdì, 2 Giugno, 2023
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    AGSM: e se tornassimo a parlare di beni comuni?

    di Cristiano Bordin

    La vicenda legata alla fusione di AGSM, società multiservizi a partecipazione pubblica, che sembra essersi chiusa con un accordo con la sorella vicentina AIM, rimette al centro del dibattito la necessità di superare le logiche di mercato nella gestione di beni essenziali come acqua e gas.

    Alla fine  Agsm e Aim, le aziende multiservizi di Verona e di Vicenza, hanno deciso di fondersi, per ora senza un terzo partner. A2A, il colosso lombardo, che nei desideri del sindaco di Verona Federico Sboarina doveva assolutamente essere della partita, resterà invece fuori dalla porta. Almeno per ora. Ma la situazione è tutt’altro che conclusa e la prova di questo è il l’astensione del presidente di Agsm, Daniele Finocchiaro, al momento del voto nel cda della propria azienda.

    Questa fusione ha messo a soqquadro la politica veronese e la giunta comunale, assolutamente divisa sulla questione: il sindaco e la sua lista, Battiti, dietro cui c’è Fratelli d’Italia, da una parte e la Lega, contraria all’ingresso di A2A, dall’altra. Ma le divisioni sono trasversali anche alla stessa Lega, se si esce dai due capoluoghi coinvolti nell’operazione. E anche a Vicenza non sono poi tutti così contenti del matrimonio: c’è chi si lamenta del fatto che quella realizzata non sia una fusione, ma che in realtà Agsm abbia assorbito Aim visti i rapporti di forza e la divisione delle quote, 60 contro 40% a favore dei veronesi.

    Uscendo dalle polemiche della politica locale la vicenda resta comunque interessante perché coinvolge i rapporti tra gestione dei servizi pubblici  e  diritti dei cittadini, e le modalità di gestione di servizi strategici – gas, energia, elettricità, acqua, servizi a rete – e le loro relazioni con il mercato, la finanza, la politica. Servizi così essenziali, vitali, possono essere gestiti solo con logiche e strategie di mercato? Quello che sta succedendo in Italia intorno a questo tipo di settori è una sorta di grande risiko dove i protagonisti sono le società multiservizi come A2A, Hera,Iren, Acea: grandi aggregazioni industriali e finanziarie che si muovono con le logiche che sono proprie del mercato. Quindi devono espandersi, in Italia come fuori d’Italia, e allargare il loro raggio di azione inglobando i gestori più piccoli. “Pesce grande mangia pesce piccolo”, insomma: e se Agsm può “mangiarsi” Aim è inevitabile che poi venga mangiato da A2A.

    Ma  queste dinamiche riguardano risorse naturali – acqua e gas ad esempio – e toccano diritti inalienabili dei cittadini di accesso a questi beni essenziali alla loro vita: possono essere gestiti solo con queste logiche? La politica ha trovato una formula, quella della gestione mista, che poi è la forma tipica delle grandi società multiservizi: formalmente la maggioranza è nelle mani del pubblico, attraverso i sindaci dei comuni interessati dal servizio, ma di fatto a decidere le strategie è il privato. Un esempio di questo può essere proprio A2A, per cui parla chiaro il curriculum del nuovo presidente Marco Patuano: ex manager Telecom e poi amministratore delegato di Edizione, la holding della famiglia Benetton. Chi deciderà le politiche su energia, acqua, rifiuti e tutti i servizi che hanno natura di servizi pubblici là dove a gestirli è A2A: i sindaci o il mercato e la finanza? E che fine fanno in questo contesto i diritti dei cittadini? 

    C’è stato però un momento in cui si è riusciti a parlare di servizi pubblici cercando di andare oltre l’esistente e oltre la solita vulgata “privato è bello, pubblico è inefficiente” ed è stata la campagna referendaria sull’acqua del 2011. Al voto, sui due quesiti che riguardavano la privatizzazione dei servizi idrici e la remunerazione del capitale investito dai gestori, definiti “ideologici” dall’establishment e dalla grande stampa, andarono, tra la sorpresa generale, in 27 milioni e la vittoria fu schiacciante. Il difficile però venne dopo. Come riuscire a mettere davvero in pratica quel successo e ripubblicizzare l’acqua aprendo la strada ad altri servizi pubblici essenziali? Qui, a parte alcune vicende che riguardano alcuni territori anche importanti come ad esempio Napoli, è rimasto sostanzialmente tutto come prima. 

    Gli attacchi al voto referendario sono stati e saranno moltissimi perché gli interessi in gioco erano e restano  enormi. Ma quella referendaria resta comunque una ottima scuola a molti livelli. A livello di capacità di partecipazione e di mobilitazione a livello popolare, che ha fatto la differenza, ad esempio. E anche a  livello di comunicazione: se la gente ha capito cosa c’era in ballo evidentemente gli argomenti usati sono stati comprensibili e capaci di muovere al voto nonostante ci si muovesse  su un terreno decisamente complicato. Ma soprattutto a livello di dibattito pubblico, tanto ricco da poterne ricavare una piccola bibliografia, e così denso di indicazioni e di suggestioni che hanno toccato il significato di termini come “pubblico” o come quello di  “servizio pubblico” e provato a percorrere strade nuove, diverse da quelle conosciute. 

    Per questi servizi si pensava infatti a forme di gestione fuori dalle logiche di profitto allargando la partecipazione e la capacità decisionale dei cittadini: gestioni “pubbliche e partecipate”. Servizi pubblici, ma pubblici per davvero. 

    Di quella stagione resta un termine che ebbe talmente tanta fortuna a tutti i livelli tanto da perdere in parte il suo significato, “bene comune”. E’ vero: bene comune è diventato con l’uso generalizzato che se ne è fatto un termine che può voler dire molto ma anche molto poco. Ma intorno a questo termine il dibattito è stato vasto e approfondito a moltissimi livelli, compreso quello giuridico pensando a come  dare attuazione e sviluppo alla battaglia politica. Un personaggio, tra i molti, che si sono spesi in questo senso è stato indubbiamente Stefano Rodotà a cui si deve una definizione di bene comune: «i beni comuni esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonchè al libero sviluppo della persona».

    Semplificando un dibattito ricchissimo – che ci può portare anche lontano, ad un altro dibattito  quello  sul termine “comune” iniziato da Toni Negri – il concetto di bene comune assorbe e supera quello di pubblico ed è in antitesi a quello di privato

    «I beni comuni sono l’opposto della proprietà», scriveva ancora Stefano Rodotà, mettendo quindi in discussione il concetto di proprietà e quindi subordinandolo alla piena realizzazione dei diritti che i cittadini hanno su beni e monopoli naturali come quelli amministrati da questo tipo di servizi. Che devono però, in ragione di questo, cambiare forma e natura e soprattutto uscire dalle logiche del  mercato e del profitto. 

    Ripubblicizzare, socializzare questi servizi allargandone contemporaneamente la partecipazione significa dare attuazione piena alla titolarità dei diritti dei cittadini su questi beni e su questi servizi. Ripensando anche al ruolo necessario  che potrebbe avere una banca pubblica capace di finanziare sia i comuni, molti dei quali oggi sono peraltro in condizioni di dissesto finanziario, che i servizi stessi. 

    Un passo successivo su cui il fronte referendario è impegnato oggi è infatti proprio  la ripubblicizzazione di Cassa Depositi e Prestiti. Ma il dibattito che quella stagione ha aperto è destinato a riprendere. Lo impone la crisi economica e quella ambientale che stiamo vivendo: c’è sempre più bisogno di alternative praticabili e possibili e di strade nuove per dare un senso a parole antiche