Il festival del 2020 è riuscito a offrire un caleidoscopio di prospettive provenienti da luoghi e punti d’osservazione diversi, mostrando sullo schermo alcune delle più stridenti contraddizioni del mondo contemporaneo
La Lessinia abbraccia la città di Verona come una corona, posta sul suo versante settentrionale. Per i veronesi i Lessini sono sinonimo di aria pulita, di riposo, sono lo scenario sereno di una fuga domenicale dalle esalazioni e dai ritmi della valle urbanizzata. Ma ogni anno la comunità montana veronese ospita anche un importante appuntamento culturale, il Film Festival della Lessinia, che dagli anni ’90 ad oggi ha riconfermato il ruolo di primo festival cinematografico dell’area scaligera. Un evento che dialoga strettamente con il capoluogo provinciale, essendo stato in passato definito il “festival cinematografico di Verona”, pur essendo significativamente collocato al di fuori delle mura cittadine. Mura che, negli ultimi anni e in particolar modo con le ultime amministrazioni comunali, non sembrano avere la giusta sensibilità per accogliere eventi culturali fuori dai soliti schemi, quelli che per intenderci fanno comodo ad un’amministrazione attenta a mantenere la città congelata nelle sue più limitanti e turistiche definizioni, dettate dalla ormai prosciugata influenza shakespeariana (City of love?).
Ecco allora che vengono in aiuto le nostre terre alte, quasi un punto di vista privilegiato, in quota appunto, che invita la città a spingere lo sguardo oltre i suoi confini, geografici ma soprattutto ideologici. Un luogo dunque perfettamente adatto ad ospitare un festival cinematografico di ampio respiro, non l’ennesimo tentativo narcisistico di riscoprirsi allo specchio (ovvero riscoprirsi in termini commerciali, turistici), quanto piuttosto l’occasione per gettare lo sguardo al di là delle mura, anche al di là delle stesse Prealpi, al di là di un’idea di cultura che la pigra Verona ama celebrare nelle sue espressioni più superficiali e convenienti. Nel teatro di Bosco Chiesanuova, casa del festival da diversi anni, entra davvero il mondo, per raccontarsi e soprattutto per insegnare, attraverso visioni provenienti da ogni suo angolo, che il passaggio di un confine non va proibito, ma vissuto come occasione di conoscenza. Questo è in sostanza l’intento della direzione artistica, alle cui redini resta Alessandro Anderloni, che qualche edizione fa usò per presentare il festival l’aggettivo “fuorilegge”, evocando il personaggio di Tönle Bintarn, il contrabbandiere protagonista di un romanzo di Mario Rigoni Stern. Un festival bandito e brigante, “contrabbandiere di lingue e di culture” per citare Anderloni nel suo commento all’edizione del 2017, in cui furono proiettati tra gli eventi speciali Banditi a Orgosolo del maestro documentarista De Seta e il Salvatore Giuliano capolavoro di Francesco Rosi.
L’edizione 2020 non ha visto invece la presenza di alcun tema specifico e possiamo immaginare che da gran parte degli spettatori verrà forse ricordata come “edizione pandemica”, per ovvie ragioni. Ma proprio nel clima virale che stiamo affrontando prende ancora più valore un evento come questo, frequentabile sia attraverso canali streaming sia, arditamente, in presenza, nel pieno rispetto delle norme sanitarie. Parliamo di un valore proporzionale alla densità di temi, suggestioni e incontri (seppure via Zoom) con gli autori che hanno reso questa edizione del festival una delle più ricche, dal punto di vista dei contenuti strettamente cinematografici. Il festival è riuscito così anche in clima di Covid-19 a farci viaggiare per le terre alte del mondo, dal Lesotho al Bhutan, dall’Iran rurale fino alla vicina Val d’Aosta, passando per il deserto del Gobi e la giungla del Darién Gap. Dai più di 40 Paesi rappresentati al festival emergono storie di sofferenza, di riscatto, di ricerca di un’identità e di perdita, con al centro sia l’uomo sia, in molti casi, la natura stessa. Quest’ultima è in effetti spesso chiamata a confrontarsi con la nostra specie, in storie che tendono a mettere in evidenza un rapporto sempre più aggravato da ciniche logiche guidate dall’interesse economico, da una spinta alla distruzione o alterazione dell’ambiente ben documentata da un film come Antropocene – L’epoca umana, presentato in Lessinia lo scorso anno. Quest’anno lo stesso filone è ripreso dalla sezione Green e in particolare dal film di Panos Arvanitakis, Apolithomata, in cui protagonista è un’area della Grecia settentrionale, la provincia dell’Eordaea, consumata dal pesante intervento dell’uomo che con imponenti macchine industriali scavano la superficie del suolo per estrarre carbone. Un processo lento, costante e titanico, dalla portata quasi disumana. L’impressione che si ha arrivati in quel luogo, come ha spiegato il regista, è in effetti quella di trovarsi su un altro pianeta, tra colossali macchinari che danno quasi l’impressione di avere una vita propria, indipendente dai pannelli di controllo. Suscita una sensazione simile, pur toccando meno le corde ambientaliste, il cortometraggio Still Working. Il contesto qui è ancora più surreale, definito dai freddi interni di una centrale elettrica obsoleta, ma ancora funzionante, anche se al minimo della sua capacità. Il film segue le attività del suo unico guardiano, che infine deve fare i conti con l’inevitabile chiusura dello storico impianto. Questi due lavori, sicuramente diversi per intenti, racchiudono in modo simile una sorta di sentimento nostalgico nei confronti non solo di una terra danneggiata dalla mano dell’uomo, ma anche di tutto ciò che è artificio dell’uomo stesso: la centrale è una sorta di organismo al limite delle forze, sconfitto dal progresso in stato di accelerazione. Un qualcosa di anziano da mandare in pensione, proprio come il suo ultimo operatore.
Il festival ci porta poi nelle terre del Lesotho, con This is not a burial, it’s a resurrection, primo lungometraggio di finzione di Lemohang Jeremiah Mosese, tra i progetti selezionati e finanziati dalla Biennale College Cinema. Anche qui uno dei temi riguarda strettamente la questione dello sfruttamento ambientale, dato che la vicenda ruota attorno all’imminente costruzione di una diga. L’attenzione si sposta però verso le vittime umane, rappresentate dai villaggi delle zone limitrofe, condannati ad essere allagati per consentire il funzionamento dell’impianto. Il film è un’opera dall’eccezionale potenza visiva e musicale, in termini non ambiziosi quanto piuttosto sperimentali, atti a evocare uno scenario esotico e al tempo stesso fuori dal tempo, al limite del mito. E ad essere tratteggiata come figura mitica è proprio la protagonista, Mantoa, anziana vedova che, appresa la morte del figlio in un’incidente, decide che è arrivato il suo momento. Posta di fronte all’impossibilità di essere seppellita nel luogo degli antenati, destinato ad essere sommerso, la donna ritrova la forza di affrontare una battaglia disperata contro gli uomini di potere che hanno preso di mira il suo villaggio. Un’opera dalla grande forza politica, una “fiaba surrealista”, come è stata definita dalla rivista di critica Film Comment, sulla soglia del gotico e dell’onirico ma ispirata da fatti di cronaca. Un grido di denuncia contro la cecità del potere e, per questo, assolutamente efficace come veicolo artistico di un messaggio universale, mantenendo il fascino di una rappresentazione esotica, davvero attenta a cogliere e far emergere ogni aspetto della cultura lesothiana, dalle musiche fino ai saturi colori dei vestiti.
This is not a burial, it’s a resurrection, in questo suo essere l’incarnazione cinematografica di una risposta sofferta e una resistenza alla prepotenza del potere, alla definizione dei suoi confini e ai suoi vincoli, è dunque un film molto vicino alla sensibilità di questo festival, che oggi così come negli anni passati ha riservato uno spazio di riguardo a film di denuncia e dedicati al tema dei diritti umani tra le popolazioni del pianeta. Vocazione che ha portato a selezionare un cortometraggio come Pratomagno, storia di un’amicizia tra un bambino italiano e un giovane pastore dal Gambia sullo sfondo delle alture aretine. Oppure in Paroles de bandits, lungometraggio diretto da Jean Boiron-Lajous che richiama in effetti l’appellativo del festival di cui parlavamo prima. Il documentario incrocia lo sguardo con quello dei migranti che attraversano i sentieri al confine tra Italia e Francia, lungo la valle della Roia. Paroles de bandits raccoglie le voci, spesso non associate a un volto, di quegli uomini costretti a migrare per fuggire da drammatici scenari di partenza. I “banditi” del titolo non sono loro, ma gli uomini e le donne che li accompagnano in questo percorso difficile e ostacolato dalle forze di polizia che pattugliano l’area. L’area della Alpi marittime raccoglie così il suo bagaglio di storie di esiliati, la cui sola speranza spesso è costituita dall’intervento di uomini disposti a eludere le autorità pur di aiutarli ad attraversare il confine, alcuni dei quali diventati volti noti della cronaca, come nel caso dell’agricoltore Cédric Herrou, noto come “l’eroe della Roia”. L’esperienza estenuante della migrazione in Europa è anche l’oggetto di un cortometraggio, Le voyage de Yashar di Sébastien de Monbrison. Il regista ha spiegato di voler raccontare la storia di un attraversamento di confini dal punto di vista del migrante, diversamente da come spesso accade nelle rappresentazioni occidentali. Il migrante è vissuto come altro, come alieno, mentre dovremmo, secondo l’autore, considerare il loro viaggio disperato un gesto eroico, paragonabile alle fatiche dei miti classici. Il suo film rispecchia dunque questa visione, illustrando con un forte senso di realismo il drammatico destino dell’immigrato Yashar.
Come è intuibile, il passaggio dal tema dell’immigrazione a quello della discriminazione è breve. In particolare, la condizione della donna, osservata in contesti di scarsa parità di genere sparsi per il globo, ha una posizione di rilievo nel programma di quest’anno. Il festival ha scelto di dare voce alle donne sia in quanto autrici (in un mondo in cui l’insufficiente rappresentanza femminile nel mondo dei registi cinematografici è sempre materia di commento o di polemica) sia in quanto protagoniste di storie che raccontano la sfida di essere donna in scenari complessi e retrogradi, sparsi per tutto il mondo. Una risposta forte a questi temi arriva da una regista nativa della Mongolia e oggi attiva in Germania, Uisenma Borchu. Il suo Schwarze Milch è uno dei lavori più risonanti di questa edizione, un’opera essenziale e di grande impatto, orchestrata con pochi elementi. Spezzata la catena con un mondo occidentale deludente, la protagonista (figura autobiografica interpretata dalla stessa Borchu) cerca un estremo ritorno alle origini, tornando dalla sorella in Mongolia, nella landa deserta del Gobi. Si trova così immersa in uno scenario privo di punti di riferimento, in cui persino le bussole morali non sembrano giocare a suo favore. La fuga da un rapporto violento la scaraventa in un mondo duro, bloccato in una struttura patriarcale dove l’uomo può esercitare pieno controllo sulla donna. Schwarze Milch (“latte nero”) è la messa in scena di uno scontro di culture estremamente distanti tra loro, l’ingresso in un mondo quasi al di là della propria percezione, eppure parte del proprio sangue e della propria eredità culturale, di cui la protagonista cerca di riappropriarsi ad ogni costo. Il film contiene anche un’indagine cruda, senza filtri sulla femminilità, sul suo potere e ruolo all’interno di comunità umane distanti tra loro. «Ho cercato di mostrare quel potere delle donne che non è sotto gli occhi di tutti. Qualcosa che sia noi donne, che gli uomini, dimenticano» nelle parole della Borchu.
C’è stato un secondo film dedicato ad una forte presenza femminile: The Widowed Witch (La strega vedova) diretto dal regista trentenne Cai Chengjie, dalla Cina. La caccia alle streghe non si è fermata al sedicesimo e diciassettesimo secolo, ma metaforicamente resiste ancora in molte regioni del mondo, in forme più e meno subdole di discriminazione. La figura della strega si è evoluta nel corso dei secoli, assumendo una diversa connotazione per arrivare nel tardo ‘900 a consolidarsi come suggestivo simbolo della militanza femminista. Il mondo dell’arte in tutta risposta ha saputo sfruttare questa nuova accezione positiva per i propri fini, dando origine ad una nuova incarnazione del female empowerment, pronta per essere usata in tutta una serie di opere, dalla letteratura fino appunto al cinema. Nel film di Chengjie, che dalla critica è stato anche definito “fiaba femminista”, è la protagonista Erhao ad assumere il ruolo di strega, in una modalità molto particolare. Erhao, rinsavita dopo un grave incidente in cui perde la vita il terzo marito, riesce per una serie di strane coincidenze a far credere di avere poteri magici: prima cura il torcicollo di un uomo prendendolo a schiaffi, poi guarisce un altro anziano sciamano abbandonandolo nell’acqua bollente per una notte e si guadagna così il titolo di strega, attirando su di sé repulsione a al tempo stesso richieste di aiuto di ogni genere. Parte così una sorta di bizzarro on-the-road della vedova, in un vecchio furgone che attraversa i villaggi delle campagne cinesi per dispensare saggezza, consigli e…incantesimi. Una storia di torti subiti e superstizione, che offre un quadro desolante e retrogrado della società rurale cinese. The Widowed Witch, girato con pochi mezzi e in bianco e nero, ha più l’aspetto di un manifesto politico di denuncia, coperto da una trama che guarda ai ritmi del cinema dell’assurdo, al realismo magico e alla black comedy. Al centro del discorso, la figura di una donna delusa e tormentata dal contesto sociale, in cui prevale una mentalità ignorante, di cui la superstizione messa in scena nel film è sintomo.
Il festival raccoglie dunque storie in grado davvero di aprire un dialogo attorno temi strettamente legati alla contemporaneità. Partendo dal peculiare contesto di queste terre alte, certo, ma con uno sguardo che tende ad altare oltre, che si sforza di guardare ad orizzonti nuovi o poco esplorati, anche e soprattutto per quanto riguarda la stessa natura del programma. È infatti evidente la presenza di una sensibilità (solitamente assente in festival specializzati in documentari e dedicati al cinema definito etnografico) rivolta alla sperimentazione, o all’esplorazione di nuove forme del genere documentario, più che alla sola facile soddisfazione di un gusto per l’esotismo, limite di tanto buon cinema del reale. Filmare questo reale rischia infatti diventare un facile esercizio di sterilità narrativa: sta alla capacità dell’autore l’arricchirlo, l’integrarlo, l’interpretarlo attraverso il filtro creativo proprio del mondo della soggettività.
Tra i titoli più significativi in questo senso, Zumiriki del regista spagnolo Oskar Alegria (in giuria quest’anno per la sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia). “Zumiriki” nella lingua basca parlata dal regista significa letteralmente “isola collocata al centro del fiume”. Il documentario di Alegria ci accompagna in un percorso alla scoperta dei luoghi legati alla memoria del regista, attraverso un viaggio in un’atmosfera esotica contaminato di tanto in tanto da presenze del passato, descritte dal protagonista, lo stesso regista. Il genere autobiografico è qui completamente reinventato. Presente e passato dialogano assieme nella narrazione costruita dall’autore, con un effetto suggestivo che sembra evocare lo scenario di un processo onirico. La realtà inquadrata è quella di un luogo profondamente cambiato: la vecchia dimora non esiste più, cancellata dall’acqua in seguito alla costruzione di una diga. Alegria vi torna però con l’intento di recuperare qualcosa del suo passato, anche solo un’immagine, una suggestione, la presenza di una pianta o persino di un animale, ancora vividi nei suoi ricordi. Come suggerisce lo stesso regista, Zumiriki invita costantemente lo spettatore ad abitare un luogo in cui il linguaggio è sopraffatto dalla memoria e, così facendo, delinea un’interessante stratificazione del reale.
Ma è anche giusto ricordare che quest’anno, secondo un andamento consolidato del festival, il premio più importante (la Lessinia d’Oro) è stato assegnato a un film di impostazione più classica, Lunana: a Yak in the classroom, del regista bhutanese Pawo Choyning Dorji. Un film di finzione con alcuni elementi tipici del documentario, come l’uso di attori non professionisti, quali sono i bambini del villaggio di Lunana, dove ha sede l’istituto scolastico più remoto al mondo. Un film dai toni delicati, che si concentra in particolar modo sul tema della tradizione e delle origini, radici che il protagonista, un musicista che insegna per sbarcare il lunario, torna a rispettare. Lunana è letteralmente un film per tutte le generazioni e per ogni pubblico, l’assegnazione del primo premio sembra dunque un risultato prevedibile. Ma ci piace pensare che tra le ragioni di questo riconoscimento ci sia anche la volontà di guardare ad una società in cui tradizione e modernità vivano un rapporto di rispetto reciproco. E l’idea che maestri di scuola raggiungano persino gli alunni delle terre più alte del mondo un po’ ci rincuora.