Un antirazzismo di facciata, opportunista fino all’osso, è quello che ci viene propinato dalla narrazione liberal a ‘favore dell’immigrazione’. Costruita su report e studi che guardano ai vantaggi economici derivanti dall’immigrazione, questa retorica si è fatta legge nella forma di una sanatoria che vuole spremere le forze del lavoro migrante e poi più nulla: gli immigrati devono sparire il giorno dopo la fine della vendemmia, per fare un esempio tutto veronese. Una retorica, insomma, da riconoscere e dalla quale prendere le distanze.
Anche quest’anno, a Ottobre, come da dieci anni a questa parte, è uscito il Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa, di Mestre.
Si tratta di uno strumento utilissimo per comprendere, attraverso dati oggettivi, l’entità della ricchezza spremuta dalla forza lavoro immigrata in Italia e le dinamiche del mercato del lavoro che la vedono protagonista, oltre a ricomporre le diffuse distorsioni ideologiche, prodotte e riprodotte da imprenditori sociali e politici, nell’arena pubblica e mediatiche.
Per il 2020, ennesimo anno in cui si registra una forte riduzione dell’immigrazione proveniente da Paesi terzi – sia per il calo dei nuovi arrivi, sia per lo scivolamento nell’irregolarità amministrativa di quote sempre maggiori di immigrati, che spariscono, così dalle statistiche, per effetto del declino economico che, in Europa, sta colpendo soprattutto in Paesi dell’area mediterranea e dei “Decreti Sicurezza” –, il Rapporto registra il contributo di oltre 147 miliardi di euro derivato dal lavoro immigrato, pari al 9,5% del Pil nazionale.
Tenendo presente che la componente immigrata della popolazione italiana non raggiunge il 9% del totale e che il costo totale dei servizi erogati ai residenti immigrati in Italia è pari a circa 26 miliardi di euro, ossia attorno al 3% della spesa pubblica totale, a fronte di un gettito fiscale, più contributi e imposte di ogni tipo, che ammonta a 26 miliardi e 600 milioni euro, risulta evidente che gli immigrati danno all’economia nazionale molto più di quanto non ricevano, con un saldo attivo di 600 milioni. A ciò va sommata la ricchezza prodotta dal lavoro “nero”, una componente strutturale delle economie dell’Europa meridionale, che in Italia ammonta a 192 miliardi. Poiché il 18,6% dei lavoratori privi di contratto è immigrato – e, quindi, gli immigrati sono sovrarappresentati tra i lavoratori particolarmente privi di tutele –, al saldo attivo poc’anzi ripreso, vanno sommati ulteriori a 15 miliardi di euro, pari all’1% del Pil. È presumibile che tale cifra rispecchi il contributo economico degli immigrati privi di permesso di soggiorno, quelli che la propaganda e l’ideologia del razzismo di stato chiamano “i clandestini”.

Come si spiega la maggior “produttività” delle popolazioni immigrate? Da un lato, sono le loro caratteristiche demografiche a offrirci una risposta: le immigrate e gli immigrati si concentrano nelle fasce di età potenzialmente attive nel mercato del lavoro (quasi il 60% tra i 15 e i 44 anni e solo il 3% oltre i 65), generalmente più giovani e più sani degli autoctoni. Dall’altro lato, le politiche migratorie italiane (ed europee), legando inscindibilmente la titolarità del permesso di soggiorno al possesso di un contratto di lavoro e impongono, così, agli immigrati una messa al lavoro più intensa e continuativa – nonostante le peggiori condizioni contrattuali – rispetto agli autoctoni. Ecco che, quindi “immigrati” e “lavoratori” sono due termini pressoché intercambiabili, come si evince dalle statistiche sulla loro condizione occupazionale e sui motivi del rilascio dei documenti di soggiorno.
Puntuali, ogni autunno, all’uscita del Rapporto curato dalla Fondazione Leone Moressa, si levano le voci della sinistra che, basandosi sui dati economici riportati e sulle analisi elaborate, sbandierano il loro presunto antirazzismo, ritenendo, così, di contrastare le posizioni esplicitamente inferiorizzanti, discriminatorie e stigmatizzanti della destra istituzionale. Per costoro, infatti, verrebbe smontato l’assunto per il quale gli immigrati sarebbero, sempre e comunque, una minaccia globale per la nostra vita sociale, parassiti del nostro benessere e invasori portatori di mali – altrimenti alieni nelle società occidentali –, quali criminalità, arretratezza, barbarie, ma, dall’alto della loro magnanimità, riconoscerebbero alle popolazioni immigrate un’utilità e un ruolo positivo.
Gli immigrati – ripetono, forti di dati oggettivi e numeri elaborati nel Rapporto annuale – sono una risorsa per l’economia nazionale, una grande riserva di forza lavoro a buon mercato per imprese e famiglie, forzati ad accettare le mansioni e i lavori più pesanti, pericolosi, precari, penalizzati socialmente e poco pagati, dell’economia regolare e di quella “sommersa”. Inoltre, costituirebbero anche una risorsa dal punto di vista demografico, per uno dei Paesi col tasso di natalità fra i più bassi al mondo e, quindi, tra i più vecchi del pianeta. Va da sé, quindi, che gli immigrati comportano una boccata di ossigeno per il sistema pensionistico, come non ha mai dimenticato di sottolineare “l’antirazzista” ex presidente dell’Inps, Tito Boeri, che ricordava costantemente che gli immigrati “pagano le pensioni degli italiani” – e si tratterà, con tutta probabilità e per diverse ragioni, di contributi pensionistici che non ritroveranno al momento del ritiro dal lavoro.
Un esempio di questi proclami apparentemente inclusivi nel confronto degli immigrati è offerto da Il Manifesto che, il 14 Ottobre, titola “Gli immigrati danno allo Stato più di quanto ricevono”, sottolineando che sono “donne e uomini che contribuiscono alla ricchezza nazionale” e concludendo che “ci sono appunto più benefici che costi per complessivi 500 milioni, visto che gli stranieri sono giovani e incidono poco su pensioni e sanità, principali voci della spesa pubblica” – pensando, così, di avanzare argomentazioni solide contro “prese di posizione ‘sovraniste’”.
A ben vedere, in realtà, la rappresentazione degli immigrati (alimentata dai mass media) come “nuovi barbari”, inclini alla devianza e parassiti, e quella che li descrive come risorsa per l’economia nazionale (spesso con la complicità delle scienze sociali) sono fra loro complementari, costituendo due facce della stessa medaglia, riproducendo e rafforzando il sistema, socio-giuridicamente costruito, di subordinazione materiale e simbolica delle popolazioni immigrate.

La stigmatizzazione mediatico-ideologica degli immigrati e l’attacco legislativo a cui sono sottoposti non sono finalizzate a “lasciarli fuori” dai confini nazionali ed europei, come dichiarerebbero le politiche di “immigrazione zero”: non si tratta, infatti, “solo” di un obiettivo impossibile, in quanto le cause strutturali delle migrazioni internazionali permangono e si rafforzano nell’attuale quadro socio-economico globale, ma anche di un obiettivo indesiderato sia dallo stato che dal capitale, che hanno un inesauribile bisogno di forza lavoro flessibile e a basso costo per comprimere diritti e valore del lavoro, nella sua interezza, e tentare un disperato rilancio del processo di accumulazione, irrimediabilmente in crisi. Le campagne e le politiche anti-immigrati servono, piuttosto, ad assoggettarli, precarizzarli, disciplinarli e metterli al lavoro, ottenendo, così, un’“immigrazione a zero diritti”: una risorsa per l’economia – e la demografia – nazionale, appunto.
Se gli immigrati contribuiscono all’economia nazionale in misura maggiore rispetto agli autoctoni, cioè, è proprio per effetto di politiche migratorie che, come anticipato, ricattano gli immigrati e le loro famiglie attraverso il ferreo nesso tra la loro messa al lavoro e la regolarità del loro soggiorno, introdotto dalla “Legge Martelli” (1990) e rafforzato dalla successiva “Turco-Napolitano” (1998), che ha fornito le basi legislative e la ratio giuridica della successiva “Bossi-Fini” (2002), tutt’oggi in vigore. Un ventaglio normativo che ha attraversato governi di centro-sinistra e centro-destra e che ha tracciato la direzione di un lungo cammino di apartheid all’italiana.
Inoltre, se l’immigrazione costituisce, oggi, una risorsa per la “nostra” economia, comportando “più benefici che costi” e ricevendo dallo “stato meno di quanto non diano” – per riprendere le parole de Il Manifesto –, perché la componente immigrata è più sana e più giovane del resto della popolazione, come si approccerà la sinistra democratica a questo fenomeno, domani, quando, anche in un paese di relativamente recente immigrazione come l’Italia, i lavoratori immigrati avranno esaurito il proprio capitale di salute o si ritireranno dal lavoro?
Le lavoratrici e i lavoratori immigrati non sono né minacciosi invasori, né tanto meno bestie da soma, ma esseri umani, portatori di istanze di emancipazione sociale, parte della classe che vive del proprio lavoro, le cui sorti, le cui lotte e le cui speranze sono intimamente accomunate e irrimediabilmente interdipendenti a livello globale.
Illustrazione di Edoardo Marconi