lunedì, 4 Dicembre, 2023
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    L’incendio della pianura. Resistenza e fascismo agrario dopo il 1945

    di Emanuele Bellintani

    Il senso comune è caduto da tempo nella trappola di considerare finito il fascismo nell’aprile del 1945: è successo per una serie di motivi diversi, ma è proprio oggi che affrontare il problema della sua continuità può dare strumenti nuovi per interpretare l’attualità. La figura di Romano Calzolari sindacalista bracciantile nella Bassa Veronese e poi dirigente della Cgil può indicare una nuova narrazione in cui il dopoguerra diventa un campo di battaglia non pacificato.


    La guerra era finita, il regime era caduto, ma i fascisti non erano scomparsi: fin da subito, dopo la Liberazione, pezzi di apparato repubblichino, schegge impazzite e golpisti si attivarono in squadre armate. Centinaia di bombe vennero messe nell’immediato dopoguerra davanti alle sedi dei partiti operai, mentre gli ex-gerarchi progettavano piani per la rinascita del fascismo. La guerra fredda e la collocazione atlantica dell’Italia avrebbero poi dato una struttura a tutta questa manovalanza rimasta disoccupata. Questi aneddoti sanguinosi non restituiscono però il senso tangibile della continuità del fascismo. Prefetti, magistrati, uomini in divisa e professori rimasero al loro posto anche nell’Italia democratica e repubblicana, ma è nelle campagne italiane dove tutto era cominciato che il fenomeno risultò più tangibile e inquietante.

    Cos’era stato inizialmente il fascismo? L’organizzazione terroristica di stampo reazionario e nazionalista che aveva avuto il compito di stroncare le aspirazioni di milioni di lavoratori della terra. Truppe paramilitari pagate da e a protezione degli agrari, dei latifondisti, che nel regime diventarono poi gerarchi o figure di spicco del Partito Nazionale Fascista. Stupisce l’estrema semplicità con cui questi possidenti, a guerra finita, si tolsero la divisa, la camicia nera e l’orbace e tornarono a dettare legge nelle campagne. Si organizzarono in un blocco sociale ben definito con lo strumento della Democrazia Cristiana e della “Confida” (l’antenata di Confagricoltura) e nella Bassa Veronese rappresentarono il potere costituito. Se questo fortilizio socio-politico fu messo temporaneamente in crisi fu tutto merito delle imponenti lotte sociali dei lavoratori e delle lavoratrici. La ritrovata libertà e i sogni – rimasti tali – di un radicale cambiamento sociale avevano spinto una generazione intera a contestare e rivendicare ciò che era giusto per i propri interessi. Un’onda popolare forte da Nord a Sud, che si solleva persino in un territorio bianco che sentiva il peso delle tradizioni religiose e dell’educazione all’obbedienza. Poteva succedere anche che, di fronte ad una grave ingiustizia, le convenzioni cedessero il passo alla rabbia, come successe nel 1948 a Legnago: il barone Treves licenziò arbitrariamente un gran numero di braccianti e durante la proteste la sua auto venne scaraventata da alcuni manifestanti nel letto del fiume Bussè.

    Foto di una manifestazione dei braccianti agricoli durante il grande sciopero del 1949.
    Fonte: www.massimorossignati.it

    La figura più importante e paradigmatica del periodo è quella di Romano Calzolari: classe 1927, originario della rossa Roncoferraro (MN). Cresce a Sorgà in una famiglia di salariati agricoli. All’indomani della Liberazione si iscrive alla CGIL e nel piccolo comune diventa subito capo lega. Da qui organizza e coordina la lotta di tutta la provincia girando con una vecchia motocicletta, durante scioperi duri ed epocali come quello della primavera del 1949 che mobilitò nel veronese circa 10.000 tra braccianti e salariati. Tutta la Bassa, dove si coltivavano riso e tabacco, in quegli anni è scossa da profondi contrasti che mettono ancora una volta l’arroganza di pochi contro la fame di pane e di libertà di molti. Se i territori montuosi della Lessinia erano il bacino di reclutamento per uomini alla fame che agrari e sindacati complici portavano come crumiri nel Mantovano con la promessa di lavoro e un po’ di terra, nella Bassa Veronese andò diversamente: Isola della Scala, Legnago, Gazzo Veronese, Erbè, Vigasio, sono solo alcune delle località dove l’incendio si propagò per anni creando leghe e cooperative. I crumiri qui arrivavano dal padovano o in “prestito” da altre aziende della zona. La lotta sindacale chiedeva diritti e la controparte rispondeva richiamandosi al passato, nonostante l’avvento della democrazia. Per ogni rivendicazione, ogni sciopero e ogni occupazione delle terre c’era la repressione di Stato che difende(va) sempre a senso unico: botte, arresti e umiliazioni che ai più giovani e determinati sembravano uscite dai racconti dei genitori. Non è un dato da poco ricordare che quella generazione di lavoratori e militanti era stata portata in grembo mentre la bestia fascista prendeva piede e terrorizzava i paesi. E poi c’era la stampa: totalmente schierata con i propri finanziatori e capace di costruire campagne di delegittimazione per gli “sfaccendati”, i “rossi” e i “sobillatori”. Per reggere l’urto di uno scontro totale nelle campagne come fu quello del 1949, pedalavano di qua e di là le “staffette” per portare disposizioni, novità sull’andamento dello sciopero, volantini e si organizzavano squadre anti-crumiri, comitati di sorveglianza e di azione fulminei. Tra gli scioperanti si praticava un’idea totale di solidarietà. Era già il 1949 e c’era la Costituzione in vigore, ma se da un lato i metodi erano quelli dello squadrismo, allora era giusto praticare ciò che era stato appreso durante la Resistenza.Più riavvolgiamo il nastro della memoria e più emerge un forte richiamo ai giorni nostri, nuovamente caratterizzati da diseguaglianze atroci. Tutto questo nonostante la figura stessa di Calzolari non abbia una via, una statua, niente di dedicato nello spazio urbano della zona.

    Prima una retorica resistenziale sempre più cristallizzata e poi il revisionismo più becero hanno invece sedimentato l’idea dello scontro tra fascismo e antifascismo come una partita di calcio, in cui il 25 aprile avvenne il fischio finale e poi tutti negli spogliatoi: e se la consapevolezza di ieri era che ci fossero vincitori nel giusto e vinti dalla parte sbagliata, adesso anche quel principio viene pesantemente messo in discussione. Per questo occorre guardare anche al dopo, agli anni immediatamente successivi alla dittatura di cui la storia ufficiale non parla e di cui si è lentamente persa la memoria. Non è un caso che si ricordino a pezzi solo il colpo di spugna sui crimini di guerra (passato per lo più sotto il nome di “amnistia Togliatti”) e la mancata Norimberga italiana. Dopotutto siamo il paese in cui gli archivi che documentano le stragi e i loro autori rimasero nascosti fino agli anni Novanta nell’armadio “della vergogna”. Oggi tutto questo può sembrare materiale polveroso per appassionati e invece la chiave per il futuro sta (anche) lì: nelle storie di ogni territorio c’è la memoria degli sfruttati che prima, durante e dopo il fascismo scelsero di combattere le ingiustizie. Il filo rosso che di generazione in generazione si passava questi esempi preziosi è stato reciso, perché ancora attuale: oggi un giovane che vive un presente di precarietà che sembra ineluttabile potrebbe imparare che anche nella Bassa Veronese ci sono stati eroi popolari che si sono sollevati con rabbia contro l’ingiustizia e pensare che sì, è arrivato il momento di “fare come i nonni”.

    Illustrazione di Rebecca Fritsche