È difficile pensare a quante cose possa aver vissuto Vittore Bocchetta, scomparso poche settimane fa. Nato a Sassari nel 1918 e cresciuto a Verona, oppositore del regime fascista, viene deportato a Flossemburg, sopravvive ed emigra in America, torna a Verona negli anni Ottanta diventando figura di riferimento nel mondo della cultura e dell’antifascismo. Con “Spettri scalzi della Bra”, uscito nel 1989 per Bertani Editore, ci consegna in forma di romanzo il suo racconto del fascismo veronese e della lotta per abbatterlo; lo fa con sguardo curioso e critico, adottando una narrazione appassionata e coinvolgente. Ne esce una narrazione apprezzabile da chiunque, ma in particolare da chi trova scomodi gli schemi prestabiliti.
«1940, il corridoio dell’Università è corrida di torelli. Lì impari i termini, le barzellette, il sale e l’aceto e il codice dei disfattisti. Lì il fascismo si veste e si sveste. Gli amici diventano camerati e attaccano. Il mio passato è corto: troppa fame per essere un individuo e troppi amici per essere camerata».
Evocativo e frenetico, il racconto inizia così, inseguendo le riflessioni brevi e appassionate, articolate e ironiche, del ventenne, veronese d’adozione, Vittore. Il suo sguardo, ricco di riferimenti culturali, mostra la quotidianità della Verona degli anni Quaranta: una città in guerra e, soprattutto, una città fascista. Ci troviamo così catapultati tra luoghi noti ma infestati da squadristi chiassosi, da gerarchi smaniosi di carriera e guadagni, dove autoritarismo e propaganda non lasciano fiato. Tutto è ritualizzato nella retorica fascista: un gesto fuori posto o dimenticato, un braccio non alzato, un cappello non tolto, costano sberle, pugni e segnalazioni alle forze dell’ordine. Lo sguardo critico e ironico del protagonista fa eccezione e inizialmente ci racconta una vita comune: l’università, la camera in affitto, le ragazze, gli amici, il servizio militare e il lavoro, ma anche la tessera del Partito, le richieste di collaborazione e delazione, il bollettino di guerra da ascoltare in piedi, i gagliardetti da salutare a braccio teso, i “battaglioni M”.
“Gli spettri scalzi della Bra” o, come sarà ristampato successivamente “1940-1945 Quinquennio infame”, è un romanzo pieno di umanità, intenso e crudo, ma capace di parlare al mondo di oggi, anche se scritto alla fine degli anni Ottanta e ambientato negli anni Quaranta. Quello raccontato non è infatti un passato polveroso, retorico o memorialistico, ma un passato vivo e affascinante. Ci immerge in una Verona le cui esistenze sono sconvolte da un potere ottuso: il fascismo e i fascisti sono ovunque, controllano mosse e pensieri, e li reprimono. È un presente davvero difficile. Come si può vivere davvero in questa situazione? Vittore ci prova, in equilibrio instabile tra la routine minacciosa degli squadristi e il grigio quieto vivere del “popolo”, che giorno dopo giorno sopravvive mimetizzandosi nel «gregge», abituandosi a obbedire e a scansare la violenza del potere. Ma «la questione è che non puoi abituartici», afferma il protagonista, prima universitario poi insegnante, uno che pensa con la propria testa, che non si accontenta di idee preconfezionate, né di soluzioni troppo semplici. E così, a suo rischio e pericolo, ragionando sempre in modo critico e indipendente, costruisce il proprio percorso intellettuale e matura quelle convinzioni forti che lo portano a scontrarsi con il regime, fino alle estreme conseguenze.
Non è l’unico a scegliere la strada dell’opposizione al regime. Ci sono pochi altri, ma ci sono. Dopo l’8 settembre Vittore però si attiva in modo autonomo, nauseato dalla presenza fascista e nazista. Si trova casualmente in un corteo spontaneo di madri che seguono i propri figli soldati, catturati, in procinto di essere deportati in Germania. Il suo attivismo scatta così, quasi per caso ma innescato dalle continue ingiustizie e prevaricazioni nazi-fasciste. Collabora quindi alla fuga dei ragazzi, e per qualche tempo cerca di ritornare alla quotidianità. Agire contro la dittatura però non è uno scherzo: «Dai diciotto ai sessant’anni gli italiani devono aspettarsi di aver sempre contatti con almeno un carabiniere; per il servizio militare, ora per i contribuiti, ora per le informazioni tue e del prossimo ed ora anche per arrestarti (pure se, per questo, abbiamo tante altre polizie)». Vittore non fa eccezione, l’attenzione del regime si stringe su di lui, che finisce in carcere. La detenzione è un’esperienza dura e lunga, ma in questo periodo il giovane insegnante si confronta con «il fiore della resistenza antifascista veronese»: Giuseppe Tommasi, Giovanni Dean, Luciano Dal Cero e anche Norberto Bobbio. Allo stesso tempo si trova di fronte al volto violento e corrotto della repressione fascista e si rende conto che solo uniti i prigionieri possono farsi forza e resistere alla brutalità dei carcerieri. Questa storia però non è fatta solo di convinzione politica, il cuore del protagonista raccoglie un’ampia gamma di emozioni e sentimenti. In carcere riesce infatti ad andare avanti anche grazie alla giovane Maria Antonietta, che lo sostiene dall’esterno, perché «ognuno di noi sovente riceve i messaggi d’amore che violano l’ispezione dei nostri secondini e nessuno di noi nasconde la sua lacrima intima, una dolcezza che la brutalità dei nostri aguzzini non è riuscita a seccare».

Dopo la prigionia la vita di Vittore cambia: inizia la militanza antifascista e si delinea sempre più il suo animo fieramente ribelle e indipendente. Si inaugura un periodo di attività intensa, dalla parte di uomini della “vecchia guardia” come il carismatico azionista Viviani, l’indomabile anarchico Domaschi, veterano del Biennio rosso e di Ventotene, di Deambrogi esponente di spicco del PCI clandestino e padre della sua “morosa” Maria Antonietta, del più giovane Berto Zampieri, scultore tra i fondatori del GAP che assalterà la prigione fascista dagli Scalzi e molti altri. Vittore dà anima e corpo ad una militanza antifascista febbrile, corre da una parte all’altra della provincia e conosce realtà diverse dell’universo resistenziale veronese. Anche gli eventi, nella primavera ed estate del ‘44 si fanno frenetici: nasce il II CLN, il GAP entra in azione, le formazioni partigiane sono in montagna… ma ancora una volta è il fascismo a colpire: Vittore torna in carcere e si apre il baratro della deportazione. Dopo Verona la prima tappa è Bolzano, nella più totale incertezza sul domani. Ma Vittore non si abbatte, riesce a mantenersi umano e aperto, e così conosciamo detenuti straordinari come Toni Baldanello con cui, ci spiega il narratore: «Quando possiamo, parliamo d’arte e di poesia. Un’altra amicizia sulla soglia di domani e di mai più: «se sopravviviamo mi piacerebbe fare qualcosa con te, se tu mi sopravvivi, ti prego va da mia madre, tu sai che devi dire e se io ti sopravviverò andrò… dove? Dimmi tu.» «Oh» dico io «da nessuno… ma, intanto, non ci pensiamo!» La mattina seguente sono fuori a scavarsi la fossa. Appena finita li uccidono a mitragliate». E quindi, inevitabile, l’interrogativo: «Fucileranno anche noi?» Non va dimenticato, questa è l’opposizione politica al tempo del regime fascista, questo è stato l’antifascismo. Vittore e gli altri veronesi del II CLN però non vengono fucilati, vengono deportati in Germania, nel campo di Flossemburg.
Arrivati all’inferno, finiscono subito in meccanismi oliatissimi e ha inizio il tragico rituale, il battesimo del lager: «Bagnati, lividi, sfiniti e storditi dall’assurdo ci addossiamo l’uno contro l’altro. I diavoli urlano rauchi e picchiano e picchiano!». Riprendono le prepotenze. Al posto dei fascisti ci sono i soldati nazisti e dei prigionieri che si assicurano qualche privilegio aiutando gli aguzzini. Privati di tutto, vengono marchiati e spediti nell’insensata routine: gli scheletri che camminano, il lavoro, il filo spinato, le divise, le armi, le gerarchie e i forni, ma anche gli insulti, i pestaggi, il freddo, la fame e, onnipresente, la morte. Non è chiaro cosa li attenda, ma non sarà niente di buono: «mi aspetto che sorga Minosse da dietro le montagne». Corpo e mente sono messi a dura prova, dalle condizioni materiali, dalle continue mortificazioni, dall’assurdità e dall’angoscia che dominano ogni attimo. Ciascuno prova a resistere, cercando un barlume positivo, per sopravvivere all’orrore della macchina dello sterminio. Vittore continua a riflettere, aggrappandosi ad appigli lontani: il ricordo dell’amore, la speranza di rivedere del cibo, gli stimoli della filosofia, le rappresentazioni letterarie… e cerca di passare più tempo possibile con i compagni di Verona, che però sono sempre più provati: «tutto si riversa nel fango, tutto quello che abbiamo assimilato dalla mamma, dal maestro e dal prete, tutto quello che ci ha dettato inflessibile il nostro super-ego. Il prossimo ci volta le spalle e tu uomo, che hai inventato il bene e il male, tu che non ti sei estinto perché ti sei socializzato, ritorni alla ‘matta bestialità». È l’oscurità più buia, il fondo del baratro. In pochi ce la fanno, Vittore è tra questi, riesce a tirare avanti grazie alle contingenze, alle scelte astute ma sempre umanissime, alla tenuta del giovane fisico e, soprattutto, alla fortuna.
“Spettri scalzi della Bra” è un romanzo molto intenso, ricco di eventi ed emozioni forti. Ma non è tutto qui, Bocchetta ci lascia qualcosa di più perché, criticando e sezionando il mondo lontano che racconta, riesce a rendere visibili anche le contraddizioni del nostro di mondo. Lo sguardo del protagonista-narratore infatti mette a nudo tanto il potere quanto la presenza di un’ideologia che lo indirizza; entrambi, allora come oggi, reali e ben strutturati nel governare le vite di tutti, ma spesso non riconosciuti né osteggiati della “gente”, dal “popolo”, e tanto meno dalle élites. Per molte e molti il regime fascista era una delle facce immutabili del quotidiano, della vita di tutti i giorni, in un presente piatto, senza tempo. Vittore, i suoi compagni e le sue compagne, opponendosi al regime fascista fanno di più: dimostrano che il potere, per quanto brutale e corrotto, può essere combattuto e sconfitto, anche se sembra intoccabile, anche se non si vede. Impresa difficilissima questa, quasi impossibile, che però non è portata avanti da un supereroe, un individuo eccezionale, capace da solo di risolvere tutto, ma da un collettivo, un insieme di persone, unite da una visione del mondo, da una prospettiva condivisa e alternativa.
Bocchetta ci affida infine un ulteriore promemoria, cioè i caratteri distintivi dell’essere fascista, quelli costantemente stigmatizzati dal giovane protagonista. Quelle scorie tossiche che, per strade diverse e sotto loghi differenti, con o senza fascio littorio e camicia nera, sono arrivate fino noi, oggi: l’autoritarismo, la prepotenza verso i più deboli, la sudditanza verso i potenti, il machismo, il razzismo e la paura per il diverso, il disprezzo per la cultura e per la libertà di pensiero. Che dire quindi, certamente vale la pena di leggere questo romanzo perché, come ogni vera opera di letteratura, anche se parla di un’altra epoca, si rivolge comunque al giorno d’oggi. E facendolo ci ricorda che si può criticare (e cambiare) il mondo in cui si vive, anche se è dipinto come l’“unico mondo possibile”, e questo si può fare a partire da noi, da oggi.
Illustrazione di Alessandro Moretti – Il Quadrumane