In queste settimane si è molto discusso sullo sblocco dei licenziamenti, che in molte parti d’Italia ha già mostrato i suoi effetti. La multinazionale GNK ha chiuso lo stabilimento fiorentino, licenziando 422 operai con una mail; a Napoli la Whirlpool ha annunciato la chiusura dello stabilimento e il conseguente licenziamento di 380 operai. In Veneto che ricadute avrà? Di questo, di “modello veneto” e di lavoro abbiamo parlato con Devi Sacchetto, ricercatore di Sociologia del lavoro presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova.
Da decenni il mondo del lavoro sta cambiando, ma la fase attuale ci sembra significativa sia per quello che è stato definito “modello Veneto”, sia per la rilevanza degli eventi degli ultimi mesi. Partiamo quindi dallo sblocco dei licenziamenti e dai possibili effetti sulla realtà del Veneto.
La possibilità di licenziare potrebbe spingere qualche azienda a liberarsi di un po’ di forza lavoro o anche come vediamo a trasferire altrove lo stabilimento. Tuttavia credo che lo sblocco dei licenziamenti non modificherà in maniera sostanziale quanto sta accadendo in Veneto, almeno nel breve periodo: da un lato ci sono ancora ampie possibilità di ricorso alla cassa integrazione, e dall’altro l’economia è in ripresa. Sta recuperando in particolare il settore manifatturiero e, per assurdo, c’è più bisogno di forza lavoro che necessità di lasciare persone a casa. Quindi i licenziamenti potrebbero essere legati alla gestione interna della forza lavoro per motivi sindacali o politici. Poi ovviamente le aziende “decotte” saranno quelle che inevitabilmente faranno licenziamenti, ma avrebbero fatto lo stesso anche qualche anno fa. C’è poi da tener presente che per le aziende è sicuramente profittevole licenziare qualcuno per poi magari riassumere altro personale tra qualche mese con contratti precari, così come con un contratto a tempo indeterminato. Qualche azienda infatti può considerare il fatto che chi ha un contratto a tempo indeterminato pre Jobs Act è più difficile da licenziare. A me pare questo lo scenario dei prossimi tre o quattro mesi. Però è evidente, come è già uscito anche sui giornali, che in alcuni settori quello che manca è un certo tipo di forza lavoro.
A che tipo di forza lavoro ti riferisci?
Faccio riferimento a una certa qualità di forza lavoro, una persona non viene assunta solo per le sue capacità e abilità tecniche, ma anche perché è donna, uomo, perché è giovane, vecchio, perché sta dentro i rapporti patriarcali, perché è migrante. Perché per rinnovare un permesso di soggiorno ha necessità di un contratto di lavoro e quindi magari si accontenta di determinati salari. Quando sui giornali appare che l’impresa X o nel settore Y non si riesce a reperire lavoratori io credo che dobbiamo andare a guardare a quali sono le condizioni di lavoro offerte. Durante la pandemia si è avuto una certa riduzione della mobilità del lavoro sia tra azienda e azienda sia la mobilità geografica. Questo blocco ha reso più complicata la ripresa perché ha interrotto il flusso di lavoro, le reti sociali che possono aiutare a costruire i bacini di lavoro, o anche la disponibilità momentanea di lavoro. La pandemia però ha bloccato la mobilità, fisica e spaziale, ma anche di licenziamenti, assunzioni, dimissioni e il meccanismo si è inceppato, quindi prima che si riprenda occorre ritrovare i bacini di forza lavoro che momentaneamente sono stati interrotti.
Il lavoro precario rientra nel meccanismo cui accennavi, in questo “vortice” di mobilità?
Esatto, la grande disponibilità di diversi tipi di contratto a termine, in particolare, così talvolta anche come parasubordinati provoca un turnover lavorativo enorme e anche una ampia disponibilità di lavoro da parte delle aziende. Se, ad esempio, pensi che a Rovigo ad Amazon utilizzano questo nuovo contratto, il MOG (Monte ore Garantito) che dà veramente il senso della mobilità e dell’estrema flessibilità. L’azienda garantisce al lavoratore assunto attraverso un’agenzia di somministrazione almeno 12 o 16 ore di lavoro a settimana, ma dopo può fargli svolgere anche 40 ore alla settimana quando ne ha necessità, comunicandolo magari la settimana prima. La vita del lavoratore e della lavoratrice, i suoi tempi vengono quindi piegati essenzialmente alle esigenze lavorative delle imprese. Mentre il lavoratore e la lavoratrice non sanno se quel mese guadagneranno 500 o 1000 euro provocando ovviamente un’incertezza estrema sulle scelte della propria vita.
Per quanto riguarda i posti di lavoro persi da parte dei precari qual è stato l’impatto della pandemia sul Veneto?
Il quadro è molto differente a seconda del settore produttivo. Il settore dei servizi, in particolare turismo e commercio, è quello più colpito: qui i contratti non sono stati rinnovati se non per periodi più brevi. Mentre il settore manifatturiero ha ripreso a funzionare, e alcuni settori, ad esempio il legno, ma anche la logistica vanno molto forte. Credo che occorra fare un ragionamento non sul Veneto in sé, ma sulle catene produttive che attraversano quest’area. Il Veneto non ha un’economia indipendente da quanto accade altrove, piuttosto il sistema produttivo è strettamente connesso all’economia tedesca, in larga misura come fornitore e subfornitore di semilavorati, in particolare del settore meccanico. Vi sono poi multinazionali che hanno investito in Veneto e le cui strategie dipendono da fattori internazionali. Pensa alla riviera del Brenta, dove larga parte della produzione di calzature femminili sono nelle mani di Louis Vuitton, Armani, Prada e che dipendono da scelte strategiche che vengono fatte a Milano e a Parigi. Quindi starei un po’ attento a dire l’economia va bene o non va bene in Veneto: dipende un po’ da quei settori in cui tu sei inserito e da come riesci a stare dentro quelle catene produttive. E questo non dipende solo dal costo del lavoro, ma da un insieme molto ampio di variabili: dalla flessibilità negli orari di lavoro, alla possibilità o meno di poter inquinare, o anche alla forza o all’assenza delle organizzazioni sindacali. O anche, e credo che nel prossimo futuro sarà sempre più importante, dalle capacità di innovazione. Un campo questo su cui mi pare il Veneto continui a mostrare una certa debolezza.
In questo contesto che ruolo assumono i cosiddetti processi di reshoring?
D’altra parte i processi di reshoring, di cui si è parlato durante la pandemia, con catene produttive più corte in cui non si fa più affidamento solo alla Cina ma si cerca di ritornare sul locale, in parte erano già presenti, e comunque stanno avvenendo in maniera molto parziale. Il problema è che il reshoring lo si può fare per alcune produzioni ad alto valore aggiunto. Inoltre dobbiamo considerare che accorciare le catene produttive è complicato perché nell’Europa orientale diversi Paesi stanno cercando alacremente forza lavoro. Quando ad esempio un Paese come la Romania, prima in maniera strisciante e adesso in modo più visibile, importa forza lavoro dal Vietnam e dalle Filippine, capiamo che i margini di manovra sono più stretti. Nel senso che è complicato spostare lì consistenti segmenti produttivi. La Repubblica Ceca ha un tasso di disoccupazione del 3-4%, simile all’Ungheria e poco più basso della Polonia. Anche nell’Europa orientale l’importazione di lavoratori migranti è ormai consistente e spesso proviene da Paesi ex-socialisti (ad esempio dall’Ucraina e dalla Serbia) o ancora socialisti come nel caso del Vietnam e della Mongolia.
Quindi possiamo dire che parlare di modello Veneto in questo senso è fuorviante?
A me pare che da un lato il modello veneto si sia diffuso, se per modello veneto intendiamo un sistema di appalti e subappalti e di bassi salari. Dall’altro è sempre più chiaro che chi comanda sono le grandi imprese che possono spostare abbastanza agevolmente i loro subfornitori da un’area all’altra. Le innovazioni tecnologiche, con macchinari che permettono di risparmiare lavoro, tendono a ridurre le dimensioni delle imprese. Ma dobbiamo fare attenzione a trattare questo tema: io credo che saranno le grandi aziende a “battere il tempo” del capitalismo contemporaneo. Le piccole-medie imprese si possono inserire quasi sempre negli interstizi, nelle forniture, anche di parti tecnologicamente evolute: non è detto che la piccola azienda non produca anche merci di elevata qualità, ma chi detiene il timone sono le grandi aziende. Pensiamo ad Amazon: quanto ci metterà a costruire il proprio sistema di fornitura o subfornitura di prodotti intorno all’area in cui si trova? Ovvio che non lo farà in tutti i siti, però adesso si parla di un sito nuovo in provincia di Treviso, di oltre un migliaio di occupati: per tenere in mano questa logistica Amazon avrà bisogno di alcune aziende che producono alcune cose, almeno quelle più frequentemente vendute. Mi pare che Ikea abbia fatto la stessa cosa con i mobilifici in particolare nelle aree del Veneto e del Friuli, dove storicamente si produce il mobile. Sono queste grandi aziende a determinare i flussi produttivi, nonché i prezzi e, di conseguenza, le condizioni di lavoro.
Per quanto riguarda invece l’economia cosiddetta “informale”, qual è stato l’impatto della pandemia su quest’ultima?
Fino a trent’anni fa si pensava che l’Occidente esportasse il proprio modello, e che quindi nei Paesi cosiddetti del “Sud del mondo”, il sud globale, piano piano diventasse la norma il lavoro salariato più o meno formale. La cosa che invece abbiamo visto negli ultimi trent’anni è esattamente l’opposto, cioè l’informalizzazione del lavoro che entra in Occidente in maniera sempre più estesa. E questo non ha a che fare con la presenza dei lavoratori e delle lavoratrici migranti. Piuttosto è connesso con il venir meno di alcune protezioni che per un breve periodo sono state ottenute da lavoratori e lavoratrici. L’informalizzazione era diffusa anche precedentemente, e tende come dire ad espandersi in quei settori in cui l’attenzione sindacale è inferiore, in cui magari vengono assunti giovani italiani, o giovani rifugiati. Prova anche a pensare al processo di sostituzione di lavoratori migranti presenti in Italia da un periodo più lungo con lavoratori con un permesso di soggiorno umanitario comunque arrivati da poco, che conoscono meno le normative del lavoro, le regole del mercato del lavoro, dove sta il sindacato. Poi dobbiamo capirci su cosa vuol dire informale. Talvolta la legislazione può perfino arrivare a rendere regolari situazioni che precedentemente erano illegali. In Italia i cambiamenti normativi hanno permesso a molte agenzie di piccole dimensioni di inserirsi nel mercato e non sempre in modo limpido, mentre molte cooperative di comodo operano in realtà come intermediari di forza lavoro. E accanto a queste cooperative di comodo vi sono sempre più anche altre forme societarie quali società a responsabilità limitata, società a responsabilità limitata e semplificata, o società in accomandita semplice che si muovono nello stesso modo, gestendo manodopera dentro posti di lavoro di altre imprese, ma che non hanno macchinari o capannoni di proprietà. Prova a pensare alla Fincantieri. Queste cooperative o imprese tendono a informalizzare ancora di più il lavoro. Nell’agricoltura, nel settore turistico ma anche nella manifattura si lavora con contratti a giornata o talvolta anche senza contratto.
Tornando al Veneto, dobbiamo però tenere presente che fino agli anni ‘70 era un’area di larga informalità: le aziende lavoravano dentro a qualche garage o a qualche stalla riarrangiata e mettevano al lavoro parenti e amici con o senza contratto. Io sono critico rispetto a diversi miei colleghi che enfatizzano come tra gli anni 1950 e 1980 vi sia stato un’età dell’oro del lavoro e che ora vi sia l’apocalisse. Io sarei più cauto, innanzitutto perché alcune parti del Veneto, così come dell’Italia, non hanno mai vissuto quell’età dell’oro. Senza andare al Sud, pensa alla differenza che c’è tra la Pedemontana veneta e il Polesine, la bassa veronese e il basso vicentino.
Se da un lato quindi le piccole e medie imprese devono avere la capacità di entrare nella “filiera” dall’altro corrono il rischio di esserne tagliate fuori.
Come diceva un vecchio operaio: “se ai rumeni dai le stesse macchine poi imparano anche loro a fare le scarpe”. E inoltre consideriamo che l’Italia continua ad avere un tasso di laureati più basso degli altri paesi, questo è un elemento continuamente “buttato sotto il tappeto”, su cui non si ragiona. Inoltre dal Veneto, e anche dalla Lombardia, molti laureati prendono la valigia e vanno altrove, perché non trovano un’occupazione soddisfacente e che possa compensare il costo della loro istruzione: se mio figlio mi è costato due-trecentomila euro non lo mando a lavorare a ottocento euro al mese. D’altra parte, sono gli stessi giovani che talvolta rifiutano queste occupazioni a basso salario, preferendo allora un basso salario all’estero, dove oltre a imparare una lingua, sperano anche in un clima più aperto nei confronti dei giovani.
Date queste premesse, viene tagliato fuori il lavoro intellettuale, quello creativo, diciamo quello dei “quadri”?
Questo è vero in parte, perché nel Veneto come nel resto d’Italia si è alzato il livello delle occupazioni, ma al contempo si tratta di occupazioni manifatturiere. Non è più il lavoro operaio degli anni 1970, è un lavoro in cui anche l’operaio deve saper usare il computer, deve saper usare una macchina a controllo numerico, deve saper mettere insieme un’idea di produzione più ampia. È sbagliato a mio avviso separare, come è stato fatto lavoro intellettuale e lavoro manuale: in entrambi ci sono quote dell’altro tipo, non c’è una separazione netta. L’operaio degli anni 1970 metteva a valore tutte le sue conoscenze, così come anche a me tocca fare delle cose manuali. Dobbiamo finirla con questa divisione perché svalorizza un certo tipo di lavoratori e lavoratrici. Prendi l’esempio della lavoratrice domestica: è come se non ci fosse dell’intellettualità in quello che fa. Tutto quel tipo di conoscenza fondamentale per svolgere lavoro domestico viene svalorizzato. Quello secondo me è un elemento cruciale.
Cambiando prospettiva: come è rappresentato il lavoro? Sentiamo spesso parlare di “lavoratori” in generale, senza distinzione tra da dipendenti e datori di lavoro, come se introiti e condizioni di lavoro fossero le stesse.
Questa questione ha due corni. Secondo me c’è stata una sottovalutazione del fatto che i piccoli e piccolissimi imprenditori, in Veneto ma non solo, sono sempre stati lavoratori che lavoravano insieme ai dipendenti, e anche per più ore, quindi non ci si è mai resi conto che questi erano lavoratori che cercavano di smarcarsi dal lavoro dipendente, per mille motivi. L’altro polo è che in larga misura questi piccoli imprenditori complice un sistema fiscale che ad alcune categorie ha lasciato ampio spazio alla discrezionalità nel pagamento delle tasse, sono spessi andati a ingrossare le file della destra. Oggi continuano ad avere una certa influenza sulle scelte politiche perché sono un gruppo organizzato, infatti oltre alla quantità conta l’organizzazione.
Dietro a molte di queste situazioni del piccolo imprenditore ad esempio nel settore del commercio ci sono le grandi rendite: chi affitta il negozio in centro e lo fa pagare migliaia di euro al metro quadro. Possiamo ipotizzare che sia la rendita a spingere sul piccolo e piccolissimo imprenditore, che spinge a sua volta sul lavoratore. In città come Venezia, ma anche Verona e Padova, i prezzi degli affitti sono molto elevati per i negozi. Quindi o tutto funziona economicamente, altrimenti bisogna chiudere.
Sulla rappresentazione che il sistema dà del lavoro: il lavoro raccontato come una favola felice, luogo di opportunità o facile arricchimento per tutti, può essere scardinato?
In un’epoca di rappresentazioni continue non sono sicuro che le rappresentazioni possano funzionare. In altre parole non so se sia attraverso l’uso spregiudicato di social o altro che si riesca a scalfire l’immaginario che è stato costruito sul lavoro. Credo che sia invece sulle discussioni di persona che si possa produrre una rappresentazione diversa. Mi pare che sulle rappresentazioni il tweet di un influencer possa essere molto più efficace di tutti quelli che si possono fare per mostrare la materialità delle condizioni di lavoro. A meno che non ci scappi un morto o situazioni di elevato sfruttamento.
A me pare che il mercato del lavoro sia sempre più stratificato e che questo sia legato anche al razzismo, che in Italia viene da lontano, almeno dalle nostre avventure coloniali. È un razzismo che nelle sue forme più lievi viene tramutato in differenzialismo democratico sicché siamo tutti un po’ diversi ma il destino del figlio dell’immigrato di finire in fabbrica, quando va bene, è scontato. Io spero che i migranti e i loro figli e figlie ci diano un po’ di speranza per il futuro. Il razzismo sta diventando strutturale e questo provoca molta rabbia, che è cattiva consigliera, ma può provocare anche dell’altro: qualche rottura, dei movimenti sociali che reclamino una parità reale di diritti. L’Italia sta cambiando più velocemente di quanto percepiamo ed è per questo che la propaganda razzista è sempre più feroce.