Da Verona giriamo lo sguardo a Nord-Ovest, lo facciamo con Marco Boba, storico militante anarchico di Torino (oggi “in esilio” a Livorno) chiacchierando del suo ultimo libro “Il nemico non ha pietà“, uscito per Eris nel 2021 e illustrato da Officina infernale. Un romanzo corposo, ambientato nel capoluogo piemontese, che narra la vendetta solitaria e spietata del protagonista Andrea, anarchico disilluso, tra militanti, amanti, rapinatori, carcerati, giudici e dirigenti della questura. Sebbene sotto forma di fiction, il romanzo tocca molti temi più generali e reali: la trasformazione della società italiana, il malessere di chi è schiacciato dal sistema capitalista, gli eventi storici e le dinamiche interne che hanno caratterizzato “il movimento” degli ultimi vent’anni, l’autoritarismo dei centri del potere politico-economico, il tutto ambientato a Torino, dove l’aria può diventare dura e opprimente.
Il tuo romanzo è senza dubbio crudo, non fa sconti: racconta la difficile militanza politica di chi vorrebbe un mondo radicalmente diverso, giusto e libero; guarda alle condizioni sia materiali e che interiori di chi fa parte di quel 99% che non comanda il mondo; e diventa sempre più cupo seguendo il protagonista, militante anarchico carico di sconfitte, rabbia e frustrazione, che sceglie la vendetta solitaria. Un romanzo che sembra non lasciare spazio alla minima prospettiva positiva.
È vero. Ho scritto mentre ero ai domiciliari: percepivo il mondo filtrato da radio, tv, internet, non potevo essere in strada, non potevo fare niente e provavo un senso di impotenza e rabbia. Inoltre da poco era stato sgomberato lo spazio occupato “Asilo”, un luogo molto importante per me e per la città, grazie alla sua posizione centrale, un punto di riferimento per tante lotte. Averlo perso è stato molto forte e doloroso. Scrivere mi è servito per sublimare il senso di impotenza e inutilità del tempo che provavo stando chiuso in casa e senza poter fare niente.
Ultimamente mi sento disilluso politicamente. Stiamo sempre più giocando in difesa, abbiamo sempre meno da difendere e ci tolgono sempre più spazio. Pensa a tutte quelle leggi, da destra e da sinistra, che hanno ridotto gli spazi per il conflitto sociale, per chi non ci vuole stare e si sente sempre più la repressione: sono diventati penali il blocco stradale, l’occupazione di una casa…I “colletti bianchi”, i dirigenti, invece la passano sempre liscia, fanno porcherie su porcherie depredando le risorse, inquinando…
Viviamo uno sfacelo in nome del capitalismo, senza un’idea d’inversione di tendenza e dal basso non si riesce a fare molto. In questo senso, forse, l’unica cosa che sta unendo le persone più disparate sono le proteste contro il “green pass”. Purtroppo invece le tante mobilitazioni dei miei compagni, sulle questioni più diverse, non coinvolgono, non interessano a nessuno, che si tratti di leggi sull’immigrazione o di territori devastati. È frustrante e poi non si riesce a far arrivare il messaggio alle masse, non si riesce a mobilitare per il cambiamento.
È evidente anche lo scollamento della politica istituzionale e “ufficiale” dalle istanze della gente, in questo senso fa da cartina di tornasole l’astensionismo che aumenta ad ogni tornata elettorale. Le persone sono disilluse e deluse, non si riconoscono nel ceto politico; però non c’è ancora il passo successivo, che è quello dell’auto-organizzazione.
Penso che la gente non sogni più un mondo migliore. Forse anche perché, per chi si mobilitava alla fine dell’Ottocento e durante il Novecento, non c’era scelta e chi era povero aveva poco da perdere. Oggi invece ci sarebbe molto da perdere nel fare certi passi e bene o male le popolazioni sono state ben addomesticate dal potere. Nel mondo occidentale il minimo è garantito, le persone devono poter consumare, senza tante velleità, che si tratti di cibo, cultura o servizi. Io stesso, ho avuto paura di fronte a certe scelte, perché sapevo che avrei perso molto. Lo dico per onestà intellettuale nei confronti di chi è stato rivoluzionario.
Torino ha un ruolo centrale, appare però come una città difficile, che non regala niente e soprattutto governata in modo molto repressivo. Com’è oggi Torino?
Non penso di potere dire niente di neutro. Io da questa estate mi sono trasferito a Livorno, perché non ne potevo più di quella città. Una città a cui sono molto legato perché ci sono nato, cresciuto, l’ho vissuta e l’ho vista cambiare.
È una città molto invecchiata, molta parcellizzata e, in alcune zone, molto povera; una città dura e per certi versi cattiva. Però in questo mondo – passami il termine – “oscuro”, siamo riusciti a creare un bel circuito e con le occupazioni, abbiamo dato vita a un mondo alternativo, dove i legami sono molto forti e abbiamo costruito molto con case e spazi occupati, e in questo contesto è nata anche Radio Blackout. Grazie alle relazioni siamo riusciti anche a ritagliarci lavori decenti, ad es. si lavora molto con il cinema e ci si conosce quasi tutti, perché si arriva dagli stessi ambienti.
Da alcuni anni però purtroppo c’è stata una grossa rottura tra i collettivi autonomi e quelli anarchici, è una brutta divisione che ha solo indebolito il movimento; anche se fuori dagli spazi politici i rapporti rimangono.
La repressione poi ha colpito duro tutti, sia gli anarchici che contro gli autonomi: tante persone sono state allontanate con fogli di via o divieto di dimora, tanti hanno ricevuto condanne a un anno, a due anni, ai domiciliari. In questo modo, per gesti che sono poco conflittuali, si accumulano condanne che hanno un impatto forte sulla vita di chi le riceve.

Sia nella realtà che nel romanzo “il nemico non ha pietà” e quando si sente toccato reprime con forza, perché?
Sicuramente le cause sono diverse: la gentrificazione, poteri e interessi che non possono essere toccati. Ad es. la Val di Susa, il Tav è un’opera inutile, però a suo favore si sono schierate tutte le forze politiche ed economiche del Piemonte, e non solo; l’unica voce critica è quella dei movimenti.
Torino poi forse è anche un laboratorio, sia per i movimenti che per sperimentare forme di repressione. Noi siamo stati dei precursori, non ci siamo mai fatti domare del tutto e qualcosa c’è sempre “sotto la brace”. La città è diventata molto universitaria, tante persone si trasferiscono da fuori e poi fanno attività politica a Torino; questo è palpabile sia tra gli anarchici che per i comunisti, questa città, comunque sia, attira gente che “ha voglia di fare”.
Tu stesso sei stato colpito da pesanti misure repressive.
Io adesso ho cambiato città perché in primavera è stata chiesta su di me la “sorveglianza speciale” per due anni. Ho pensato che a Torino sarei diventato scemo: io ho bisogno di vedere il mare…. Avendo degli agganci a Livorno, sono venuto qua. Mia moglie ha condiviso la scelta ed è riuscita a trovare lavoro.
Alla fine è arrivata anche la condanna alla sorveglianza speciale, di un anno e mezzo, senza obbligo di dimora, ma con rientro notturno, quindi devo stare nei dintorni e non posso partecipare ad un sacco di attività, sono un po’ in esilio.
Mi dedico a cose concrete per non avere la sensazione di buttare via il tempo. Questa è una sensazione che ho sentito molto forte in carcere, dove per fortuna sono stato solo una settimana.
Che cosa è successo?
Ero stato accusato di avere lanciato, durante una manifestazione fuori dal carcere delle Vallette, il razzo che ne ha incendiato il laboratorio. Per questo ho fatto un anno e due mesi ai domiciliari. Poi è arrivata la condanna in primo grado a quattro anni per “incendio doloso”, che è una follia perché chiunque avesse lanciato quel razzo non aveva intenzione di dare fuoco al carcere dove erano reclusi, oltre agli altri, anche diciassette nostri compagni. La condanna definitiva è stata quindi per incendio colposo e la pena è ridotta a due anni, per cui mi resterebbero sette mesi da fare…ma c’è tempo.
Quella condanna in primo grado ha contribuito alla “sorveglianza speciale”, perché pur avendo tanti reati sulle spalle, ho anche una certa età e sono diluiti in più di trent’anni di attività politica. Tra le righe scrivono però che nonostante io abbia più di cinquant’anni non mi sono mai ravveduto, continuando a essere quello che sono, fare quello che faccio, dire quello che dico. Hanno provato a mettere anche il mio romanzo precedente tra le prove, ma poi lo hanno tolto. È stato comunque un tentativo grave, che fa capire il clima repressivo che c’è a Torino.
Oltre alle conseguenze della repressione politica molti personaggi del romanzo si trovano a vivere difficoltà materiali o interiori. Penso al protagonista stesso, ai suoi amici o compagni, alla coppia per cui lavora nel ristorante, alla guardia giurata…
In parte è dovuto al momento pessimista in cui mi sono trovato a scrivere. Inoltre, anche se credo di essere una persona solare e positiva, a me piacciono le cose tristi e oscure, mi attraggono perchè esistono, le ho avute vicino e fanno parte dell’essere umano. Ad esempio, non sono mai stato tossicodipendente, però ho visto gli effetti devastanti dell’eroina, sia a livello personale che a livello di massa; oppure l’autodistruzione da alcool.
Il contesto urbano poi ha influito molto: a Torino gli anni ‘90 sono stati belli e spensierati per il movimento, ma tutto è finito con la morte di Sole e Baleno: abbiamo sbattuto la faccia contro il muro della morte, abbiamo scoperto quanto potesse essere dura la repressione; tre anni prima del G8 di Genova. Queste vicende dure hanno segnato molto le persone: alcuni sono spariti, hanno lasciato l’attivismo per vite “normali”, qualcuno è finito nell’alcolismo o nella tossicodipendenza, altri ancora hanno continuato e hanno ricominciato a fare cose; ma è stato devastante.
Il G8 per il movimento, le reazioni all’attentato dell’11 settembre e poi la crisi del 2008 hanno portato a un peggioramento molto rapido, a livello repressivo. Ma c’è anche la questione sociale: la forbice tra le classi agiate e gli altri si è allargata tantissimo. Come i dati emersi qualche settimana fa sugli stipendi, che in Italia negli ultimi trent’anni sono diminuiti, caso unico in Europa.
In realtà già dagli anni ‘80, a livello culturale rispetto al decennio precedente è cambiato molto, il cinema e la tv in modo particolare: negli anni ‘70 c’era la commedia politica, dieci anni dopo sono arrivati i cinepanettoni e quelle schifezze lì; il modello culturale era mutato, non c’era più una critica della società, ma solo “tette e culi” e benessere; i programmi come “Drive in” hanno preso il posto della satira politica.
Nel romanzo il protagonista mette nel suo obiettivo Silvestri, un imprenditore delle televisioni; inoltre è assente il piano collettivo dell’azione politica, Andrea quasi subito si sgancia dalla sua area di riferimento e poi prende la sua strada.
È una scelta figlia della disillusione, una disillusione che non diventa però pessimismo: lui non vuole influenzare gli altri, tarpare le ali a chi ha ancora voglia di fare attività politica.
Questo è anche un mio sentire, perché chiaramente Andrea è un po’ una mia iperbole amplificata, sia in negativo che in positivo. Ultimamente anch’io mi sono tenuto un po’ fuori dalle cose politiche proprio per non tarpare le ali a chi ha ancora combattività; perché lottare non è mai inutile: magari non raccogli subito i frutti, ma è comunque un seminare, che farà germogliare; e in ogni caso occupare uno spazio, fare una manifestazione, fare un presidio… Sono esperienze di vita, formative, sia in positivo che in negativo, fanno parte di un percorso di crescita. Io quindi non avrei nessun diritto di dire che sono inutili, per la frustrazione di non aver visto arrivare la rivoluzione che ho tanto aspettato.
E tu sei ancora attivo, o hai scelto di farti da parte come Andrea?
Sono attivo culturalmente. Oltre alla scrittura però ho l’hobby del disegno, per cui sto cercando di unire le due cose in una storia. Ci sarebbe un libro di cui fare l’editing ed un romanzo, iniziato l’anno scorso, che sto finendo.
Sul piano politico no, non posso frequentare determinati ambienti. Quindi a parte qualche amico che mi passa a trovare non ho molte relazioni… e le relazioni politiche che vorrei avere non posso svilupparle, perché mi sono vietati i luoghi.
Per il momento l’attività politica l’ho lasciata…ma non potrei fare altro. Magari potrei farlo in modo diverso: ho meno voglia di andare in piazza per qualsiasi cosa succede. Credo che anche portare avanti le idee significhi fare attivismo.
Anche tramite i miei romanzi emerge un modo ben chiaro di essere e anche un modo diretto di fare politica, commettendo anche dei reati, come occupare una casa o fare un esproprio.
Come riportato dalle carte processuali, mi considerano pericoloso perché, a cinquant’anni, posso essere d’esempio, mentre per loro dovrei mettere la testa a posto e smettere di fare certe cose. Ora ho smesso, ma per cause di forza maggiore, ma non condanno queste pratiche, non posso snaturarmi.

Concludendo, la struttura narrativa del libro è molto complessa: si intrecciano ambienti differenti, diversi personaggi, fatti storici, scene d’azione, indagini in stile poliziesco…è un romanzo molto denso. Come sei arrivato a questa scelta?
Un mio compagno, che conosco da anni e sta nella stessa casa editrice, è stato critico perché lui segue gli schemi narrativi. Ma io scrivo come mi viene e volevo fare quella cosa lì. A me i racconti non piacciono perché sono troppo brevi, preferisco invece i romanzi corposi. Mi piace molto il “Conte di Montecristo”, che ho letto poco prima che mi arrestassero. E si sente nel romanzo, ma involontariamente.
Mi piace molto leggere e più i romanzi sono pregni e più li apprezzo. Inoltre sono autodidatta e sono rimasto influenzato da quello che ho letto negli anni, quindi inevitabilmente scrivendo ho riportato fuori quello che ho assorbito. Ho giocato a creare la trama con personaggi di fantasia e avvenimenti reali. Ad esempio le vicende del carcere riflettono praticamente quello che ho vissuto io; e ci tenevo che uscisse fuori la mostruosità della prigione, con le sue regole e la sua assurdità.
Uso la finzione narrativa ma ho voluto anche raccontare alcune vicende storiche del movimento, in particolare quello anarchico, come il G8 di Genova, la lotta NO TAV, la manifestazione del 15 ottobre 2011 a Roma e anche fatti meno noti; in pratica ho raccontato quasi in diretta lo sciopero della fame di due compagne a L’Aquila del 2019.
A questi aspetti reali, ho aggiunto personaggi inventati che mi erano simpatici, come ad esempio i rapinatori, oppure il Siciliano. Al protagonista poi faccio fare delle cose abbastanza tremende, tanto che per superare il disgusto per le sue azioni, ricorre all’eroina. Per questo ho anche ricevuto una critica politica: Andrea fa delle cose che non sono “da compagni’. È vero effettivamente, ma io sono figlio della cultura spaghetti western, dei film sulla vendetta asiatici, sono figlio di questa idea, sono un fan di Elroy, di Sergio Leone; certe sensazioni e pulsioni negative, oscure, come la violenza e la cattiveria, appartengono all’essere umano e quindi vanno raccontate.
Illustrazioni di Officina Infernale. Ringraziamo Eris per la concessione.