Cosa significa sfruttamento umanitario? In che modo questo concetto può essere utile per ripensare una politica antirazzista oggi? Ha senso parlare di accoglienza? Cosa si nasconde dietro alla retorica umanitaria? Attraverso un’inchiesta a Verona e provincia questo reportage tenta di mostrare quali sono gli effetti, tanto sistemici quanto nascosti, che si celano dietro il discorso e il governo umanitario delle migrazioni.
Mettere al lavoro, nascondere il lavoro
Sono circa le 16 di una piacevole giornata di inizio estate e ho appuntamento con Giulia, operatrice di una delle diverse cooperative che hanno in affidamento i 1289 richiedenti asilo a Verona e provincia. La quasi totalità di essi (1200) si trova nei CAS, centri di accoglienza straordinaria, anche se molti sono in Italia da diversi anni. Mi trovo in un CAS a ridosso del centro storico di Verona, che ospita circa una trentina di richiedenti. Non c’è troppo movimento e noto poche persone all’interno del centro. “Sono quasi tutti a lavoro”, mi racconta Giulia, “e chi non lo è sta riposando”. Le chiedo che tipo di lavoro fanno: “agricoltura, rider, ristorazione per la maggior parte”.
Similmente, in un limpido pomeriggio di fine estate mi trovo in un CAS nella bassa Veronese, una casa degli anni ‘80 su due piani in aperta campagna, in una zona prevalentemente agricola dove i campi coltivati si perdono all’orizzonte. Il centro ospita circa 25 richiedenti asilo e ho appuntamento con Blaise, 24 anni dal Senegal, in Italia dal 2016, titolare di protezione speciale, mentre poche altre persone sembrano presenti nella struttura. “Sono tutti al lavoro”, mi racconta, mentre inizia a cucinare un tipico piatto senegalese a base di riso, verdure e carne, “sto cucinando per quando rientrano”. Blaise al momento ha una pausa di un paio di settimane e poi ritornerà a lavorare per un agricoltore della zona. Prima di questo impiego, ha passato due anni lavorando circa 70 ore alla settimana tramite una cooperativa, dividendosi tra raccolta di frutta e verdura e allevamenti di polli e tacchini. Il contratto veniva rinnovato ogni due mesi e dichiarava circa il 30% delle ore lavorative, per 5 euro l’ora – il minimo contrattuale a Verona e provincia per il lavoro agricolo è di 7,5 euro l’ora, dopo 39 ore settimanali le ore dovrebbero essere considerate come straordinarie.
Queste due istantanee da Verona e provincia possono rivelarsi particolarmente utili per iniziare a mettere a fuoco il tema centrale di questo reportage, quel fenomeno politico-economico che Enrica Rigo e Nick Dines hanno efficacemente chiamato sfruttamento umanitario. Con questo concetto-chiave hanno voluto mettere in evidenza come il cosiddetto governo umanitario delle migrazioni, quindi l’intero sistema di “accoglienza” per richiedenti asilo, ma non solo, svolga un ruolo centrale nella riorganizzazione e regolazione del mercato del lavoro. Da un lato, come molti e molte hanno evidenziato in questi anni, il discorso che ruota attorno alla retorica dell’accoglienza presenta una serie di problematiche politiche, etiche e storiche che lo rendono molto scivoloso, e in ultima analisi basato su processi di desoggettivazione e infantilizzazione del migrante, rappresentato come vittima nera bisognosa di un salvatore bianco. E’ in questo senso, per esempio, che lo scrittore afroamericano Teju Cole ha parlato di “complesso industriale del salvatore bianco”. Dall’altro lato, e su questo punto sorprendentemente c’è stata meno attenzione, sia critica che politica, rimane importante guardare agli affetti materiali che il cosiddetto sistema di accoglienza produce nei diversi territori della penisola, a partire proprio dallo sfruttamento lavorativo. Come ricordano Rigo e Dines, parlare di sfruttamento umanitario non vuol dire in qualche modo parlare di uno sfruttamento morbido e meno brutale rispetto ad altre forme di sfruttamento, quanto piuttosto mettere in luce come l’intero sistema di governo dei richiedenti asilo produca una vera e propria economia politica di sfruttamento. E’ in questo senso che la retorica umanitaria, dell’accoglienza e della compassione, emerge come un diversivo ideologico che rischia di nascondere i suoi stessi effetti materiali più brutali.
PARLARE DI SFRUTTAMENTO UMANITARIO VUOL DIRE METTERE IN LUCE COME L’INTERO SISTEMA DI GOVERNO DEI RICHIEDENTI ASILO PRODUCA UNA VERA E PROPRIA ECONOMIA POLITICA DI SFRUTTAMENTO
Nel discorso umanitario di questi ultimi anni, infatti, il tema del lavoro è stato del tutto, o quasi, trascurato. Da un lato, la spettacolarizzazione dei confini esterni assorbe gran parte del dibattito pubblico e mediatico, a discapito di un’analisi attenta delle dinamiche socio-economiche che si mettono in moto quando queste persone vengono collocate nei diversi territori della penisola. Dall’altro, il tema dello sfruttamento del lavoro migrante rischia spesso di venire presentato in termini fuorvianti che tendono ad (auto)assolvere il ruolo, assolutamente centrale, svolto dalle stesse politiche dell’asilo e dell’accoglienza nella messa a lavoro dei migranti-richiedenti asilo. In questa maniera, come vedremo, da un lato l’umanitarismo è emerso in questo ultimo decennio come un vero e proprio dispositivo di regolazione e razzializzazione del mercato del lavoro, dall’altro lato, a livello pubblico e istituzionale, ma anche in buona parte di lavori critici sul tema, la questione dello sfruttamento umanitario non viene quasi mai trattata. E anche quando questa viene menzionata, solitamente viene inquadrata come fenomeno sporadico, e dunque esterno, allo stesso dispositivo umanitario.
La realtà dello sfruttamento umanitario
Murat ha 24 anni e viene dal Pakistan, è arrivato in Italia a Novembre 2015 e vive in un CAS nella zona industriale di Verona. Giunto attraverso la rotta balcanica, ha vissuto per circa 5 mesi in ripari di fortuna nella zona della stazione ferroviaria di Verona Porta Nuova e ad Aprile 2016 è riuscito a presentare domanda di asilo in questura. In questi anni è sempre rimasto a Verona, cambiando diversi CAS, sempre della stessa cooperativa, e ora è in attesa del ricorso in tribunale dopo che la commissione ha diniegato la sua domanda di protezione internazionale. Mi racconta che da quando è entrato nel CAS si è messo subito a cercare lavoro e dopo qualche mese di ricerca ha trovato un impiego per qualche settimana come “tuttofare” per un banchetto del mercato settimanale in zona stadio, senza contratto. Poco dopo è riuscito a ottenere il primo lavoro con contratto, di un solo mese: magazziniere presso una multinazionale della logistica, con turni notturni. Ha poi fatto l’operaio agricolo in Valpolicella, a nord di Verona, per una settimana nella raccolta dell’uva. Dopo questa serie di lavori brevi ha trovato impiego come magazziniere presso un grande negozio all’ingrosso nella zona di Verona ovest. Qui è rimasto per 3 anni, licenziandosi dopo aver tentato, più e più volte, di ottenere quello che gli spettava: un contratto che dichiarasse le effettive ore svolte e il rispetto dei turni.
“Il contratto prevedeva 30 ore settimanali. In realtà lavoravo tutti i giorni, 7 su 7, almeno 8 ore al giorno. Avevo diritto a 3 giorni liberi al mese, e ho lavorato così ininterrottamente per quasi 3 anni, con uno stipendio che arrivava a circa 1000 euro.” Dopo questi tre anni, a fine del 2019, Murat, in un anno e mezzo, ha cambiato diversi lavori. E’ tornato a fare per qualche mese il “tuttofare” per un banchetto del mercato, a Verona e provincia. In nero, senza contratto, con una paga di 5 euro l’ora. Ha poi fatto per circa 3 mesi il rider, con uno stipendio netto di 450 euro mensili, e a inizio estate 2021, tramite un’agenzia ha trovato lavoro come operaio non specializzato in un’azienda idraulica nella bassa veronese, a circa 25 chilometri di distanza dal suo centro di accoglienza straordinario. Il contratto, di 3 mesi, certifica 4 ore giornaliere a fronte delle 9 realmente svolte. La stessa agenzia lo ha poi mandato a fare il magazziniere in una grossa impresa agroalimentare, dove carica e scarica giornalmente cassette di frutta e verdura che arrivano poi nei reparti dei supermercati di Verona e provincia. Il contratto è di un solo mese e poi Murat tornerà a cercare l’ennesimo lavoro (sfruttato), da richiedente asilo accolto in Italia.
La storia di Murat ci restituisce uno spaccato abbastanza fedele di quelle che sono le comuni esperienze di vita e lavoro delle decine di migliaia di richiedenti asilo che vivono nella penisola, ma anche nel resto dello spazio europeo, in quei centri che vengono chiamati “di accoglienza”. Giorgio, che da quasi 10 anni lavora come volontario socio-legale con i richiedenti asilo su Verona e provincia, grazie alla conoscenza che ha acquisito ascoltando decine e decine di storie di migranti in attesa di ottenere risposta in merito alla loro domanda di protezione internazionale, mi racconta, con la fermezza di chi ha imparato a combattere con un sistema burocratico stritolante, la cruda realtà di questi centri. “Praticamente tutti i richiedenti asilo che conosco e ho conosciuto in diversi anni sono tutti sfruttati sul luogo di lavoro. Su Verona e provincia la situazione in agricoltura, per esempio, è drammatica. Centinaia di ragazzi che vengono assunti, per anni, da imprese agricole con contratti di poche ore settimanali quando invece lavorano full time, anche la domenica. Questo chiaramente fa parte di un sistema complesso di sfruttamento istituzionalizzato. Quelli che vengono chiamati centri di accoglienza, quasi tutti straordinari, infatti, fungono da veri e propri bacini di manodopera a basso costo, altamente precaria e sfruttabile e con un pressoché nullo potere sindacale o contrattuale, mentre i controlli non esistono. Su tutta Verona e provincia, per stare solo all’agricoltura, ci sono circa 12000 aziende agricole, e ogni giorno i controlli fanno affidamento su 3/4 persone. In più, avendo tutti formalmente un contratto, diventa quasi impossibile per chi controlla dare delle sanzioni.”
QUELLI CHE VENGONO CHIAMATI CENTRI DI ACCOGLIENZA, QUASI TUTTI STRAORDINARI, INFATTI, FUNGONO DA VERI E PROPRI BACINI DI MANODOPERA A BASSO COSTO
Il lavoro grigio è infatti diventato, almeno in agricoltura, in questa macro-area che comprende le provincie di Verona, Mantova, Ferrara e Rovigo, uno dei principali metodi di reclutamento usati dalle aziende per sfruttare i richiedenti asilo, scampando così a possibili multe o sanzioni. “Conosco molti ragazzi che mentre lavoravano hanno visto arrivare dei controlli per verificare la loro situazione contrattuale. Avendo contratti fittizi, dalle 10 alle 20 ore settimanali, come puoi dimostrare che loro stanno lavorando full-time, 7 su 7, da mesi, in molti casi anni? E’ chiaro che siamo dentro un sistema che gioca su questa manodopera e che conviene ai datori di lavoro, spesse volte schiacciati dalla GDO, ai grandi gruppi dell’agroalimentare, e non solo”, continua Giorgio. Ma, come molti ragazzi con i quali ho potuto confrontarmi in questi mesi, e come testimonia la storia di Murat, lo sfruttamento umanitario non riguarda solamente l’agricoltura. E’ anzi un fenomeno malleabile, che ben si adatta alle diverse richieste degli indotti produttivi dei territori. La forza-lavoro umanitaria viene impiegata nelle grandi enclave agricole sparse sul tutto il territorio nazionale, nei grandi poli logistici, dove i richiedenti asilo vengono impiegati con contratti anche di pochi giorni da agenzie interinali, nelle grandi catene della ristorazione dove lavorano sia come aiuto-cuochi che come addetti alle pulizie, nelle grandi città del nord come rider o in generale impiegati come manodopera flessibile utilizzata dalle agenzie del lavoro per coprire periodi di alti picchi produttivi. Molte volte, come hanno segnalato diverse inchieste in questi ultimi anni, e come mi hanno raccontato diversi richiedenti asilo, le agenzie del lavoro o direttamente le singole aziende usano i centri di accoglienza come veri e propri poli per il reclutamento di manodopera a basso costo.
Molti dei richiedenti asilo che si trovano nei CAS a Verona o nelle zone limitrofe, per esempio, sono occupati come lavapiatti o aiuto-cuochi nei ristoranti cittadini, oppure come rider. Osman ha 30 anni e viene dal Pakistan, è arrivato in Italia nel 2017, vive in un CAS vicino al centro di Verona e ha lavorato per più di due anni come aiuto-cuoco in un ristorante in zona fiera. “Lavoravo 6 giorni su 7, il lunedì era il giorno di chiusura. Facevo l’aiuto-cuoco e lavoravo sia a pranzo che a cena, quasi sempre almeno 10 ore al giorno, molte volte anche 11. Sul contratto erano dichiarate solamente 4 ore giornaliere, poi mi hanno alzato a 5. Guadagnavo 1000/1100 euro al mese, per più di 260 ore mensili, in busta paga erano sempre meno di 500 euro”. Attualmente Osman non sta lavorando, ha da poco ottenuto, in appello, un permesso di protezione sussidiaria, e entro qualche mese dovrà uscire dal centro di accoglienza alla ricerca di un’abitazione, dopo aver passato 4 anni in un limbo – fisico e legale, aspettando di ottenere finalmente un documento.
Però, “la convinzione, molto comune, che sia necessario velocizzare i tempi del rilascio dei documenti per i richiedenti asilo per una migliore integrazione nel tessuto sociale è un tipo di discorso molto scivoloso, sicuramente parziale e miope. Conosco infatti numerosi richiedenti asilo che, arrivati nei diversi CAS della provincia di Verona hanno ottenuto in qualche mese l’asilo. Una volta che si ottiene il documento si è costretti a lasciare il centro, anche se alcune volte chi ha ottenuto il documento rimane svariati mesi in accoglienza perché trovare un alloggio è difficilissimo, per vari motivi, non ultimo il razzismo degli affittuari, e allo stesso tempo, perché le buste paga sono sempre irrisorie, essendo quasi tutti questi migranti pagati ‘in grigio’. Così, non parlando la lingua e non avendo nessun tipo di rete sociale che li potesse aiutare, questi migranti con finalmente un documento in mano sono quasi tutti finiti a lavorare in condizioni di sfruttamento drammatico, per anni. Questo aspetto ci deve fare riflettere sulle origini complesse e perverse di tutto questo sistema”. Così mi racconta Giada, avvocato che da anni segue le pratiche legali dei richiedenti asilo a Verona e provincia.
E’ il caso, per esempio, di Ade, 33 anni, proveniente dal Mali. “Quando sono arrivato in Sicilia, a inizio 2016, sono stato trasferito subito ad Aosta – è bene ricordare che i richiedenti asilo non scelgono la loro destinazione sul territorio, ma vengono spostati dal ministero degli interni in base ai posti disponibili delle varie prefetture. Dopo pochi mesi sono andato in commissione e mi hanno dato un permesso di protezione umanitaria di 2 anni. Sono stato mandato fuori dal centro di accoglienza ma non conoscevo nessuno ad Aosta, non parlavo ancora bene l’italiano, così sono andato a Pavia, dove vive un mio zio. Tramite lui ho trovato una casa condivisa con altri migranti e ho iniziato a lavorare in una fonderia. Ho lavorato lì per quasi 3 anni, senza nessun tipo di formazione, di corsi sulla sicurezza, e facevo di tutto. Prendevo 700 euro al mese per lavorare anche 60 ore a settimana, anche la domenica quando era necessario. Ho chiesto diverse volte al titolare di aumentarmi la paga, ma non ne ha mai voluto sapere”. Dopo 3 anni passati in questo stato, Ade ha lavorato in agricoltura, come addetto alle pulizie per alcuni hotel e per una pescheria, in Italia e all’estero. Lavori in nero, alcune volte con contratti irrisori che non corrispondevano mai alle ore effettive di lavoro. E’ rientrato in Italia, a Verona, a inizio del 2020 e non trovando un alloggio ha vissuto, con altri migranti, in uno stabile abbandonato alla periferia di Verona nord, e attualmente lavora nella bassa veronese per un’azienda agricola: 7 giorni su 7, 6 euro l’ora, contratto mensile rinnovato ogni fine mese che dichiara solamente 12 giorni lavorativi. “Siamo in quasi 45 a lavorare lì e quasi tutti sono richiedenti asilo. Molti sono ancora nei centri di accoglienza. La situazione a lavoro è molto pesante, non solo perché si lavora tanto, tutti i giorni, e molte ore non sono pagate in busta paga. Avendo un contratto mensile che può essere rinnovato o meno, siamo costantemente in competizione tra noi lavoratori, perché chi lavora meglio e di più avrà più possibilità di essere ripreso al lavoro nei mesi successivi. Veniamo trattati come degli animali. Non capisco come si possa chiamare tutto quello che viviamo quotidianamente come accoglienza”.
7 GIORNI SU 7, 6 EURO L’ORA, CONTRATTO MENSILE RINNOVATO OGNI FINE MESE CHE DICHIARA SOLAMENTE 12 GIORNI LAVORATIVI
Queste condizioni di sfruttamento umanitario che coinvolgono in maniera generalizzata richiedenti asilo e titolari di varie forme di protezione internazionale (asilo, protezione sussidiaria, protezione speciale, ecc.) sono tanto sistemiche quanto sottostimate nel discorso pubblico e politico. Un discorso, quello mainstream, ma non solo, che molte volte vede nelle politiche umanitarie l’alternativa al governo securitario apertamente razzista delle destre italiane ed europee. Il punto, come oramai molti studiosi e studiose hanno sottolineato, è che umanitarismo e securitarismo non sono altro che due facce dello stesso dispositivo di governo e management razziale delle migrazioni. E una delle funzioni centrali di questo dispositivo di gestione delle migrazioni è proprio quello di produrre una popolazione subordinata e razzializzata che ben si intreccia con le dinamiche del neoliberalismo contemporaneo. “Non è vero che i richiedenti asilo non sono integrati, sono integratissmi”, mi racconta ironicamente Luca, giovane sindacalista che per anni è stato operatore dell’accoglienza. “I richiedenti asilo sono infatti integratissimi nei settori produttivi dei territori del nord come del sud. Agricoltura, ristorazione, logistica, servizi, sono la manodopera perfetta per questo sistema fatto di precarietà e flessibilità. Non lo sono per tutto il resto, a livello sociale e affettivo per esempio, vivono di fatto segregati dal resto della società e passano le loro giornate, o nottate, sul luogo di lavoro o nei centri. Per capire il ruolo centrale di tutto il sistema di accoglienza in questo sistema di sfruttamento, basti pensare, solo per fare un esempio, che non è previsto nessun tipo di formazione sindacale e lavorativa per questi soggetti. I servizi si limitano all’insegnamento della lingua italiana, e poco più, con operatori a loro volta assunti con contratti precari che non possono far altro che limitarsi a insegnare alla bene e meglio le basi della lingua che servirà poi ai richiedenti per andare a lavorare nelle condizioni che sappiamo.”
Uscire dalla trappola umanitaria
Musa viene dalla Nigeria, ha 31 anni ed è arrivato in Italia a fine 2016, richiedente asilo diniegato in commissione, sta aspettando il ricorso. “Sono arrivato a Verona pochi giorni dopo essere arrivato in Sicilia. Sono stato trasferito in un CAS in provincia di Verona e lì ho iniziato a lavorare in agricoltura. Lavoravo come raccoglitore di insalata, e anche altre verdure, per 2,5 euro l’ora senza contratto, 8 ore al giorno, dal lunedì al venerdì. Non lavoravo sempre, c’erano dei periodi che stavo nel campo – campo è il termine che molti richiedenti asilo usano per definire i centri di accoglienza – perché il lavoro così è veramente orribile, ma tornavo perché avevo bisogno di soldi e non sapevo dove altro andare. Dopo due anni e mezzo a lavorare così ho trovato un altro lavoro, grazie a un amico, come magazziniere nella logistica, in ZAI a Verona, assunto tramite un’agenzia. Ho iniziato a Gennaio 2021, e sto ancora lavorando lì. E’ meglio rispetto a prima perché mi pagano meglio – 6 euro netti l’ora – ma è comunque molto dura. Da dove abito, ci vuole circa un’ora andare e un’ora a tornare, con il treno, e lavoro solo di notte. Siccome l’ultimo treno disponibile arriva a Verona verso le 22:30, aspetto anche due ore prima di iniziare il lavoro. Preparo i pacchi che la mattina vengono caricati sui furgoni per le consegne della merce. Il mio contratto è di un mese e prevede 6 ore settimanali, ma io sono al quinto mese con lo stesso contratto, che viene mensilmente prorogato, e lavoro almeno 40 ore a settimana. In aggiunta, ogni giorno ricevo un messaggio attorno alle 4 del pomeriggio da parte della ditta che mi avvisa se devo andare al lavoro o meno. Funziona così tutti i giorni, non posso mai sapere quando lavoro se non qualche ora prima tramite un SMS che mi dice ‘stasera si lavora ore 24’, oppure ‘stasera niente lavoro, ti scrivo domani’”. La storia di Musa, per certi aspetti, è simile a quella dei moltissimi richiedenti asilo che lavorano nei diversi poli logistici sparsi nella pianura padana (Bologna, Milano, Piacenza solo per citarne alcuni). Il richiedente asilo è diventato il profilo perfetto in un settore che può richiedere, a distanza di giorni, a volte ore, un aumento vertiginoso della manodopera, per un lasso di tempo molto limitato. Contratti giornalieri, o di pochi giorni, quasi sempre tramite agenzie, molte volte riattivati per mesi, sono la norma per la manodopera umanitaria, pronta a essere “scaricata” non appena diminuiscono i carichi di lavoro.
Guardare attentamente alla storia di Musa, come alle altre raccolte in queste pagine, può essere un esercizio utile per iniziare a ragionare sul ruolo, assolutamente centrale e decisivo, svolto dalle politiche dell’asilo e dell’accoglienza nel produrre veri e propri bacini di manodopera precaria e razzializzata. Abbiamo oramai a disposizione diversi studi e report che mostrano come lo sfruttamento umanitario sia, qualitativamente e quantitavimente, un fenomeno pervasivo e sistemico. Sappiamo, solo per citare uno dei dati più eclatanti riportato da Carlo Caprioglio ed Enrica Rigo, che circa il 40% della manodopera africana in agricoltura è composta da richiedenti asilo e altri titolari di forme di protezione internazionale. Ma cosa ci dicono queste storie e questi dati? Cosa ci rivelano riguardo quello che nominalmente viene chiamato sistema di accoglienza?
Il rischio da evitare è quello di continuare a leggere questo fenomeno come elemento eccezionale, come una sorta di effetto collaterale e trascurabile rispetto a un sistema di “accoglienza” tutto sommato “accettabile”. L’ideologia e la retorica umanitaria infatti funzionano molto bene da questo punto di vista: da un lato l’umanitarismo continua e produrre soggetti sfruttabili e subordinati a livello socio-economico, dall’altro si presenta come un discorso che ha poco o nulla a che fare con la questione dello sfruttamento del lavoro migrante. Per uscire da questa trappola umanitaria (qui e qui), può essere utile partire proprio dalle storie di vita delle persone che da anni alternano le loro esistenze tra i centri di “accoglienza” e il luogo di lavoro. Una politica antirazzista, che non voglia incagliarsi nella palude umanitaria, deve ripartire anche da qui, guardando cioè l’umanitarismo a partire anche e soprattutto dalle dinamiche materiali, di sfruttamento e razzializazione, che produce e riproduce nei diversi territori della penisola, e dello spazio europeo.
*Per motivi di privacy e sicurezza, tutti i nomi delle persone menzionate sono stati cambiati.
** Il reportage è frutto di un lavoro sul campo svolto a Verona e provincia tra aprile e ottobre 2021, all’interno di un progetto di dottorato presso l’Università L’Orientale di Napoli.
Illustrazione di Alberto Casagrande