venerdì, 22 Settembre, 2023
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    Il cittadino conforme è quello che non partecipa ad alcun tipo di conflitto

    di Alessandro Dal Lago

    Tra pochi giorni di nuovo in libreria, “La produzione della devianza” del sociologo Alessandro Dal Lago è un libro che nonostante abbia quarant’anni non perde il suo valore. Ombre Corte lo ripubblica a poche settimane dalla morte dell’autore, decano della materia e per anni voce critica nel dibattito politico italiano. Il volume risulta ancora un utile strumento di comprensione che aiuta a inquadrare molti fenomeni contemporanei, alcune dei quali, come le cosiddette “baby gang” o i clochard che puntualmente sono sgomberati da alloggi di fortuna, attraversano la nostra città e il discorso pubblico. Ringraziando l’editore, pubblichiamo un’anteprima dalla prefazione alla prima ripubblicazione.


    Nel mio saggio ho cercato di documentare, dai primordi nel XIX secolo fino a oggi, questa vocazione morale (o moralistica) della teoria sociale. Al di sotto del gergo scientifico si scopre facilmente la preoccupazione, politico-morale più che scientifica, di fissare il confine tra ciò che è socialmente lecito e ciò che non lo è. Ma, a differenza della morale dei filosofi, che dopotutto hanno tentato di definire significati come “giustizia”, “equità”, ecc., quella sociologica non è mai riuscita a definire gli standard del normale o del lecito (se si prescinde da teorie che oggi suonano abbastanza bizzarre come l’“uomo medio” di Quételet). La normalità è qualcosa che la teoria sociale ha sempre presupposto senza però chiarirne i contenuti e gli ambiti. Al suo posto, ha perseguito piuttosto la “conoscenza” dell’anormalità, nelle sue varie forme empiriche (anomia, devianza, disorganizzazione, crimine, conflitti). Ovviamente, il socialmente lecito non poteva essere fatto coincidere con la “legalità”, se non altro perché le scienze sociali sapevano bene che legale e illegale sono concetti strettamente dipendenti dalle definizioni dei sistemi normativi concreti (quelli giuridici), che a loro volta sono il prodotto di deliberazioni, negoziazioni e processi tipicamente sociali. Con l’eccezione di Durkheim[1], la sociologia classica ha eluso perciò il problema, o meglio l’ha dislocato, concentrandosi sulla spiegazione delle trasgressioni, delle deviazioni dall’ordine. Non è difficile accorgersi che c’è qualcosa di tautologico in questo modo di procedere. Se la normalità non è definita esplicitamente – e non potrebbe esserlo, perché allora il senso ideologico o apologetico dell’operazione sarebbe scoperto, poco scientifico – con che diritto si qualificano come devianti un gran numero di comportamenti empirici? Con nessuno, a meno di non riconoscere che in questo caso non si fa scienza, non si scopre qualcosa, ma lo si costruisce, lo si inventa. Ecco, in poche parole, la produzione della devianza.

    Scorrendo la letteratura sociologica che va, grosso modo, dagli anni Trenta alla fine del secolo XX, si trova che, volta per volta, sono stati (e sono) considerati casi empirici di devianza (al di fuori dei crimini più gravi come rapina, omicidio, stupro, spaccio di droga, ecc.): la prostituzione, ma anche il lavoro delle entrâineuses nelle taxi-dance halls o, più recentemente, in locali notturni o discoteche, il vagabondaggio e un gran numero di stili di vita marginali, i vari gradi di alcolismo e il consumo di droghe leggere, l’appartenenza a culture o sottoculture giovanili, l’accattonaggio, l’evasione dell’obbligo scolastico, innumerevoli forme di protesta urbana, le cosiddette malattie mentali e in generale i “disturbi del comportamento”. Alcuni teorici fanno rientrare nella devianza anche la non conformità alla cultura aziendale sul luogo di lavoro, dal “ritualismo” al rifiuto del lavoro o al sabotaggio passivo. Più recentemente viene fatta rientrare nella devianza anche quella che i francesi chiamano l’incivilité, che potremmo tradurre come “comportamento socialmente molesto” (dagli schiamazzi all’ubriachezza o all’urinare in pubblico). In pratica non c’è comportamento per così dire non conforme (o non conformista) che non possa essere arruolato nella devianza e quindi “spiegato” con qualche modello eziologico (in termini sociali, beninteso).

    Si comprende pertanto che il modello implicito e mai dichiarato di “conformità” (nella teoria struttural-funzionalista, che ha dominato la scena sociologica per gran parte del xx secolo) ad altro non rimanda che all’“uomo in grigio”, l’abitante dei suburbs. Costui infatti è definito precisamente dal non cadere nella tentazione o nella pratica dei comportamenti devianti citati sopra. Non credo che sia necessario grande acume sociologico per scoprire che il cittadino conforme è quello che non partecipa ad alcun tipo di conflitto, non si mescola a culture marginali, alternative o antagoniste, non soffre di problemi personali, mentali o di comportamento, è insomma definito in tutto e per tutto da quello stile di vita che un certo cinema americano ha diffuso con successo fino all’avvento del fatale ’68 (di qua e di là dall’Oceano Atlantico). Un personaggio altrettanto irreale del protagonista di Truman Show. Con la differenza che questo, insieme al suo spensierato mondo di favola, è l’esplicito risultato di una fabrication televisiva mentre l’attore conforme di Parsons (e in generale delle teorie della devianza e del controllo sociale) è un pallido profilo o tutt’al più l’immagine idealizzata che le mamme americane, prima della guerra del Vietnam, potevano accarezzare per i loro figli.

    Tutto ciò è stato spazzato via, in America come in Europa, dai conflitti dagli anni Sessanta. La stessa sociologia americana (in un clima di radicalismo teorico di cui oggi sono rimaste poche tracce) ha decostruito l’immagine del controllo sociale e della devianza che la teoria sociale aveva elaborato scolasticamente. Senza essere esplicitamente politicizzati, un gran numero di teorici e ricercatori sovvertivano gli stessi presupposti della teoria sociale conservatrice. In poche parole, cercavano di rimettere con i piedi per terra la sociologia, ripartendo, anche loro, dalle pratiche quotidiane, lavorando come etnografi delle istituzioni giudiziarie e del controllo sociale, mostrando l’inconsistenza di quei valori o “orientamenti normativi” che la sociologia aveva fin lì messo alla base di qualsiasi analisi dell’ordine e del disordine. Da un gran numero di ricerche risultava, in breve, che era un certo ordine a produrre il disordine, il controllo sociale (come già aveva compreso Durkheim, nonostante tutto) a produrre la devianza. Non che questa nuova sociologia negasse l’esistenza o l’esigenza di un ordine sociale (come appare per esempio da recenti interpretazioni di alcuni sociologi divenuti classici come Goffman)[2]. Ma i meccanismi di gestione dell’ordine erano smontati fino a mostrare come, in ultima analisi, fosse l’etichettamento (labelling) di certi comportamenti a creare la devianza. Non necessariamente intenzionale, ma effetto del funzionamento quotidiano, normale, degli apparati amministrativi e di controllo (scuole, tribunali, ospedali, prigioni) e dell’azione degli “esperti” (psichiatri, avvocati, giudici, assistenti sociali, ecc.), l’etichettamento veniva definito come un processo circolare in cui alla fine il “deviante”, indipendentemente dalle sue reazioni, o adattamenti, personali (l’acquiescenza, la ribellione, il rifiuto, ecc.) era in tutto e per tutto il prodotto finale di un sistema di fabbricazione della realtà. Gli studi più importanti di questa tradizione di ricerca[3] e di altre affini (di Sudnow sulla difesa d’ufficio, di Goffman sugli ospedali psichiatrici, di Becker sulla stigmatizzazione delle sottoculture, di Cicourel sulla giustizia minorile, di Schur sulle pratiche giudiziarie, di Scheff sulla carriera dei malati mentali, di J.D. Douglas sulla moralità quotidiana, e così via) mettevano in scena in altri termini una vera e propria microfisica del potere alternativa alle vacue manipolazioni concettuali della sociologia accademica.


    [1]              Come vedremo più avanti, Durkheim è il solo sociologo classico ad aver compreso – grazie alla sua sensibilità antropologica, probabilmente – le funzioni rituali del reato e della sua punizione, della devianza e della sua stigmatizzazione. Per alcune considerazioni sull’attualità delle sue posizioni, cfr. il mio La tautologia della paura, in “Rassegna italiana di sociologia”, 1, 1999.

    [2]              Cfr. Pier Paolo Giglioli, Presentazione a Erving Goffman, L’ordine dell’interazione, trad. it. a cura di P.P. Giglioli, Armando, Roma 1997.

    [3]              Per un’utile presentazione di queste tendenze, limitata comunque alla sociologia criminale, cfr. Stephen Hester e Peter Englin, Sociologia del crimine, trad. it. a cura di M. Strazzeri, Pietro Manni, Lecce 1999. Per avere un’idea del significato metodologico delle ricerche in questione, dei loro antecedenti e delle correnti affini è ancora utile Margherita Ciacci (a cura di), Interazionismo simbolico, il Mulino, Bologna 1983: cfr. anche Alessandro Dal Lago e Pier Paolo Giglioli (a cura di), Etnometodologia, il Mulino, Bologna 1983. La migliore introduzione ai metodi “naturalistici” in questo campo di ricerca resta David Matza, Come si diventa devianti, trad. it. di M. Petacchi, il Mulino, Bologna 1969. Molto meno incisivo Antthony Giddens, Le nuove regole del metodo sociologico, trad. it. di M. Baldini, il Mulino, Bologna 1976. 


    Illustrazione di aBpR