Dopo anni di discussioni, il programma di riqualificazione dell’ex lanificio Tiberghien, simbolo di San Michele Extra, sta procedendo verso la sua effettiva realizzazione. Ma a che logiche risponde l’attuale progetto, come si inserisce nel tessuto urbano cittadino e quale sarà l’impatto sul quartiere?
Sono circa le 8.30 del mattino, mi sto preparando a uscire di casa. Bevo l’ultimo goccio di caffè e scorro, assonnata, le notizie sul piccolo schermo del mio telefono. È qui che ricevo un messaggio, da un collega architetto, con il link al post dell’assessore all’urbanistica Ilaria Segala dove si presenta il progetto aggiornato per la riqualificazione dell’area Ex Lanificio F.lli Tiberghien.
Quella fabbrica la vedo da quando sono bambina. Ha sempre esercitato un certo fascino su di me, mia nonna materna ci ha lavorato per molti anni. Il quartiere dove sono cresciuta è un’estensione della fabbrica stessa. Non molti anni fa poi (e ancora fresca di laurea in architettura), assieme ad amici e colleghi che condividevano la passione per l’archeologia industriale, abbiamo stilato un catalogo di tecniche costruttive adoperate nei diversi ampliamenti del Lanificio.
Il progetto, che mi trovo davanti agli occhi ora, fa male. Anzi, mi fa incazzare terribilmente. Devo rispondere.
Come demolire un monumento in poche pratiche mosse
Il Lanificio F.lli Tiberghien, costruito nel 1907, a poca distanza dalla stazione ferroviaria di Porta Vescovo e vicino ad un sicuro approvvigionamento idrico, diventa ben presto motore di sviluppo per le aree del piccolo comune di San Michele Extra e del quartiere di Borgo Venezia. Oltre al fabbricato industriale vengono poi costruite case per i dipendenti, assieme ad una serie di servizi: un campo sportivo, una cooperativa di consumo per gli operai e le operaie, un convitto e una colonia estiva nella zona di Roverè veronese. Moltissimi infatti sono i lavoratori e le lavoratrici impiegati nel lanificio; molti risiedono in edifici in prossimità della fabbrica e altrettanti arrivano da svariate aree della provincia. Così, in breve tempo, da semplice luogo di lavoro la fabbrica diventa un luogo che permette di stringere legami e di costruire identità per le persone che vi vivono attorno.
Negli anni a venire l’impianto industriale subirà svariate modifiche, espansioni e mutamenti, per seguire l’innovazione tecnologica e l’aumento della forza lavoro. Un significativo frazionamento dell’area avviene nel 1984 quando una parte consistente sarà venduta e separata da un muro dal resto del comparto che continuerà le attività di lanificio fino al 2004, anno della definitiva chiusura. Da allora una delle più estese fabbriche del veronese rimarrà in stato di abbandono per oltre dieci anni. Rifugio per senza tetto e luogo di pellegrinaggio per appassionati e studiosi di archeologia industriale.

Da una prospettiva architettonica la fabbrica è stata un vero e proprio collage edilizio; un catalogo di tecniche costruttive del Novecento, unico nel suo genere. Dalle coperture a shed in legno e colonne in ghisa dei primi Novecento alle colonne con shed e travi reticolari di metà secolo, fino alle più recenti strutture in calcestruzzo armato prefabbricato. Un insieme reale dell’evoluzione delle tecniche edilizie in ambito industriale in Europa, tra ampliamenti e sopraelevazioni, il cui progetto iniziale fu sviluppato in Francia.
Questa insolita qualità è stata parzialmente riconosciuta dalla Soprintendenza che, nel novembre 2014, ha posto il vincolo monumentale sul comparto industriale del lanificio in abbandono da 10 anni. Un riconoscimento che rimane tuttavia parziale: il primo paradosso dei “vincoli Tiberghien”. L’area vincolata interessa, infatti, la sola zona in abbandono dal 2004 e non l’area venduta negli anni Ottanta che, oltre ad ammontare a circa il 40% per estensione dell’area totale dell’impianto, conta al suo interno alcuni degli edifici architettonicamente più significativi di tutta l’area industriale. In buona sostanza non si capisce come, senza alcuna logica, il vincolo ministeriale interessi solo metà di quello che è stato l’intero lanificio (ad eccezione dell’ ex filatura su cui vige un grado di tutela da parte del Comune).
Ad ogni modo, parte del sito viene innalzato allo status di monumento, per la sua grande valenza storico-culturale all’interno del tessuto urbano veronese e a testimonianza edilizia di un tratto di storia nazionale. Nel testo del vincolo stesso possiamo leggere:
«l’ex lanificio Tiberghien presenta importante interesse culturale in quanto costituisce un esempio unico, per l’intera provincia di Verona, di insediamento industriale strutturato secondo una politica imprenditoriale di tipo paternalistico-assistenziale, sull’esempio delle esperienze maturate in Francia nella seconda metà del XVIII secolo».
Questa decisione, unita allo stato di abbandono in cui giacevano le strutture dell’ex lanificio, innescò immediatamente una forte polemica pubblica, alimentata anche dalla facile retorica del degrado.
Ed è così che a distanza di pochi mesi, la stessa Direzione Regionale per il patrimonio culturale del Veneto, con provvedimento del 25 giugno 2015, ridusse drasticamente il vincolo, dichiarando che l’importante interesse culturale di archeologia industriale dell’Ex lanificio Tiberghien si limitava alle costruzioni che avevano mantenuto le caratteristiche storiche originali: la sola ciminiera e i due corpi di fabbrica ritenuti originali. Che cosa significasse “originali” però non era dato sapere.

Nell’agosto dello stesso anno venne posta tutela indiretta sul resto del comparto, che comportò concrete limitazioni sulle nuove costruzioni:
«eventuali nuovi volumi che verranno costruiti all’interno del perimetro dell’area sottoposta a tutela indiretta, non dovranno superare altezze congrue in analogia con quelle attuali e la copertura dovrà essere riproposta in continuità con l’esistente»
e ancora
«eventuali interventi da realizzare sui corpi prospettanti la via Tiberghien dovranno comunque garantire la continuità percettiva del fronte, in relazione con la porzione originaria sottoposta a tutela diretta».
Rimosso così il vincolo totale e senza perdere troppo tempo, l’allora giunta Tosi, nel giugno del 2016, autorizzò le demolizioni di buona parte della fabbrica.
Se Tosi è l’uomo che è riuscito ad azionare la benna del demolitore, va però ricordato che la stessa proprietà aveva già tentato di demolire totalmente l’area (ad esclusione della sola ciminiera) per realizzare un piano di speculazione edilizia, rigettato dall’allora amministrazione Zanotto.
Occasioni perse
Dal 2016, praticamente ogni giorno, passo davanti a quel che resta del lanificio. Strano pensare che, oggi abbattuto come un bersaglio nemico, sia passato indenne tra due guerre mondiali. Un ammasso di macerie dove crescono piante spontanee e dove, nonostante tutto, continuano a rifugiarsi i senza tetto.
Il progetto che mi trovo davanti adesso, presentato dall’amministrazione Sboarina, è una revisione di quello realizzato dalla vecchia amministrazione Tosi, un anno dopo la demolizione del 2016. Prevede la ristrutturazione degli edifici rimanenti e la costruzione di nuovi volumi terziari, commerciali e abitativi per un totale di 20.170 mq e attrezzature di interesse generale per 7.000 mq, con la possibilità di costruire fino a sette piani fuori terra. L’intervento obbliga poi all’adeguamento della mobilità stradale, prevedendo una rotonda su via Unità d’Italia e una su via Tiberghien, oltre ad una strada all’interno dell’area della fabbrica stessa. Non ultimo un nuovo campo da calcio, in sostituzione dell’attuale parcheggio su via Tiberghien come ampliamento del campo da calcio già esistente.
Le presenze più ingombranti nel progetto sono quelle di un grande supermercato, in adesione al corpo di fabbrica centrale, della strada che taglia in due il sedime originario del lanificio, la connessione tramite piazze pavimentate delle due aree precedentemente divise negli anni Ottanta e non ultima, una lunga striscia di parcheggi fuori terra lungo via Unità d’Italia.
Da una semplice comparazione tra il vigente vincolo di tutela indiretta disposto dalla Soprintendenza e il masterplan di progetto, risultano evidenti due incongruenze: l’obbligo di rispettare le altezze preesistenti contro gli attuali sette piani messi a progetto e l’obbligo di garantire la continuità percettiva del fronte fabbrica su via Tiberghien contro la demolizione di buona parte dello stesso fronte, attualmente a progetto.
Ora che la fabbrica è stata in buona parte demolita, il problema più grave non è tanto il rispetto formale di questo vincolo, quanto l’assenza di un progetto unitario che rispetti la storia del monumento e non ne diluisca la forza architettonica fino a renderlo invisibile.

Il primo intervento, in parte già compiuto, è la demolizione quasi totale dei due fronti principali della fabbrica: quello su via Unità d’Italia e quello su via Tiberghien. Questi due elementi, che sono da sempre una delle cifre stilistiche del lanificio, separano il dentro dal fuori, la fabbrica dal resto del quartiere. Ora invece il progetto lascia che il tessuto urbano entri e si confonda con gli edifici della fabbrica stessa, disgregandone il perimetro, già segnato da una demolizione indiscriminata che non ha considerato le diverse epoche storiche degli edifici. Come se non bastasse, il progetto prevede una strada carrabile che taglia verticalmente il sedime originale del lanificio, dividendo ed isolando la costruzione rimasta vincolata nell’area est dal corpo della ciminiera ad ovest. Infine, per esaltare il tutto, il grande blocco del nuovo supermercato sarà obbligato dal vincolo di tutela indiretta a mimare la copertura a shed demolita, con un camouflage di cui possiamo solo immaginare la qualità. Insomma, anche Viollet-le-Duc si sta rivoltando nella tomba e già dava segni di movimento alla vista del “restauro” degli Ex Magazzini Generali.
La sensazione è che si stia perdendo una grande opportunità, cioè quella del ridisegno del fronte strada su via Unità d’Italia che, da essere fortemente connotato e riconoscibile quale era quello dell’ex fabbrica, sarà trasformato in un fronte generico, che potremmo incontrare in qualsiasi altra zona della provincia. La mancata presa di posizione del Comune, rispetto alla probabile richiesta del privato per la costruzione dei parcheggi fronte via Unità d’Italia, è figlia di una vecchia strategia di marketing dei supermercati che vuole quota parte dei parcheggi ben visibili dalla principale strada di accesso. Ne risulta un fronte non solo anonimo, ma anche difficilmente vivibile a piedi o in bici, che va a favorire la “città della macchina”, in un momento storico di inversione di tendenza.
Un altro ambito mal affrontato nel progetto attualmente presentato (che pur diminuendo la cubatura rispetto alla versione presentata dalla scorsa amministrazione, resta identico nell’assenza di visione progettuale) è il verde pubblico, di cui c’è grande richiesta nella città di Verona. Un verde vero, calpestabile, vivibile dove si possa spendere il proprio tempo libero senza inutili restrizioni, aiuole intoccabili o recinti. Prova ne sia il successo del recente parco Santa Teresa il quale, oltre ad avere una grande affluenza, ha rivalutato economicamente gli edifici che vi si affacciano. Qui troviamo invece una forte tensione alla pavimentazione e l’uso di termini come “verde servizi”, che suonano come verde ad uso del cittadino, ma sono di fatto un albero tra un parcheggio e l’altro: un “verde” che basta, forse, per rinfrescare l’auto. In buona sostanza, un furbo uso di termini inappropriati porta alla errata percezione del progetto stesso. L’unico spazio verde presente si traduce nell’ampliamento del campo da calcio adiacente all’area della fabbrica. Verde ad accesso contingentato, in quanto campo da calcio, non parco liberamente accessibile, e ad uso di un singolo sport (esiste già, a pochi metri, un campo da calcio regolamentare costruito proprio dalla Fam. Tiberghien).
La città generica
In questo quadro si crea una città di recinti, anche grazie alla retorica del degrado, in cui il tempo di utilizzo degli spazi è regolato, si cammina solo su percorsi adibiti e il verde è da guardare e non toccare. Anche l’implementazione delle ciclabili è mal riuscita: non essendo studiate su ampia scala si traducono in spezzoni non ragionati sulla base di un vero piano cittadino di mobilità lenta, pratico e sicuro da utilizzare. Provare per credere: avanti e indietro sul “marciapiede ciclabile” di via Unità d’Italia, mettetevi il casco.
Insomma, la triste vicenda dell’Ex Lanificio F.lli Tiberghien lo porta ad essere, da fabbrica a forte spinta paternalistico-assistenziale, generatore di servizi alla comunità oltre che di occupazione, ad involucro incapace di coinvolgere i cittadini: l’ennesimo non luogo. Ironia vuole che a completare l’opera di smaltimento sia proprio quella parte politica che fa della difesa dell’identità locale la sua massima bandiera.
Archivio Ivres
Il Tiberghien è sicuramente l’esempio di un problema più ampio e sistematico che con la crescente dismissione dei siti industriali del Novecento ha visto lo svuotamento di grandi aree collocate in zone strategiche della città. Vaste aree originariamente costruite ai margini sono oggi centro e come tali hanno un grande potenziale nel ridisegnare la città futura. Il valore architettonico ed urbanistico delle costruzioni industriali non è evidentemente compreso, che sia per ignoranza o per speculazione.
La città che si preannuncia, e che già stiamo vedendo costruirsi sotto i nostri occhi, si sviluppa in maniera puntuale e frammentata, dove la richiesta individuale sopperisce alla pianificazione generale, creando una città di recinti accostati tra loro, ma che non generano un ampio tessuto ramificato e connesso. Mentre questo avviene distruggiamo le uniche parti di edilizia storica e identitaria del Novecento in cambio di involucri economici senza aura. Quello che va denunciato oggi, e che si trascina da anni, è la totale mancanza di un piano generale di sviluppo della città, di una visione della Verona del futuro, per la creazione di spazi urbani abitabili e confortevoli, di spazi della socializzazione e del vivere comune, che tutti sentano e difendano come propri.
«La Città Generica, una volta, aveva un passato. Nella sua tensione alla dilatazione, vaste sezioni di esso in un modo o nell’altro sono sparite, prima senza rimpianti (il passato era sorprendentemente poco igienico, perfino pericoloso); poi, senza preavviso, il sollievo si trasformò in rimpianto. Certi profeti (lunga chioma canuta, saio grigio,sandali) da sempre ammonivano che il passato era necessario: era una risorsa. Lentamente la macchina della distruzione si arresta cigolando; certe catapecchie scelte a caso sull’immacolato piano euclideo vengono salvate, restaurate a uno splendore che non hanno mai posseduto».
(Rem Koolhaas, Junkspace)
Illustrazione di Nicolò Tedeschi